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150 ANNI DOPO

Hermann von Kanzler, il generale (valoroso) di Porta Pia

La Rivista Militare, periodico dell’Esercito italiano, ha ricordato con tutti gli onori un vecchio “nemico”: il generale Hermann von Kanzler, comandante dell’Esercito pontificio ai tempi della Breccia di Porta Pia. Una bella figura - di cattolico, di uomo e di militare - che accettò la resa solo per obbedienza al Santo Padre

Cultura 28_09_2020

Un paradosso, ma a ricordarlo con tutti gli onori ci ha pensato il “nemico”. È stata infatti la Rivista Militare, periodico dell’Esercito italiano fin dal 1856, a pubblicare, nel fascicolo storico di questo mese dedicato al 150° anniversario della Breccia di Porta Pia, un corposo capitolo sul generale Hermann von Kanzler, il comandante dell’Esercito pontificio. Per il resto, sembra che nessuno si sia ricordato di questa gran bella figura, di cattolico, di uomo e di militare.

Scrive l’Esercito: “Seppe coniugare le virtù di organizzatore con quelle di comandante, il mestiere delle armi con una profonda cultura, l’ardimento con l’obbedienza anche agli ordini più difficili da accettare per un soldato. Teutonicamente scrupoloso e gran lavoratore, raccolse l’eredità del suo predecessore trasformando - compatibilmente con le risorse disponibili - il piccolo Esercito Pontificio in una macchina bellica piuttosto efficiente i cui risultati furono evidenti per tutti anche se, per stessa volontà del Pontefice, i suoi soldati non ebbero modo di spendersi fino all’ultimo sangue, come avrebbero voluto”.

Prima del 1798, anno in cui Roma venne invasa dai napoleonici con la dichiarazione della prima Repubblica Romana, per il Papa non si era mai posta l’esigenza di un esercito efficiente dato che nessuna grande potenza europea avrebbe mai pensato di invadere il Patrimonio di San Pietro. Le cose cambiarono nel 1860, quando lo Stato Pontificio perse, a distanza di pochi mesi l’una dall’altra, le legazioni di Marche e Umbria.

Il già limitato esercito papalino - che constava di circa 20.000 uomini, per la maggior parte italici escludendo due reggimenti di svizzeri - vide calare ulteriormente anche il numero dei suoi soldati tanto che, nel 1867, non arrivava a 13.000 unità. Per fortuna arrivò Kanzler, uno dei massimi condottieri dell’Esercito pontificio, nonché l’ultimo: dopo di lui, nessun militare è stato elevato al grado di generale (oggi, il massimo grado per le Guardie Svizzere è colonnello).

Nacque nella Germania meridionale a Weingarten nel 1822 da una famiglia borghese, quindi con un cognome ancor privo del predicato nobiliare “von”. Dopo il liceo entra nella scuola militare di Karlsruhe per uscirne come ufficiale nel 1840, ma si dimette nel 1844. Il motivo di questa drastica scelta è indicativo della sua personalità senza compromessi. Sfidato a duello da un commilitone, come fervente cattolico non può accettare di battersi. Tuttavia, come soldato, non può nemmeno dimostrarsi vile e pertanto l’unica via resta quella di abbandonare la carriera militare.

Dopo un soggiorno in Inghilterra, Kanzler entra nell'Esercito pontificio nel 1845, con il grado di capitano; nel 1848 combatte contro gli austriaci durante la Prima Guerra d’Indipendenza e, nel ’59, diventa comandante di reggimento. L’anno dopo, a seguito dell’audacia dimostrata contro i piemontesi nel corso della Seconda Guerra d’Indipendenza, viene nominato generale dal ministro cardinale Francesco Saverio de Mérode; nel ’65 è nominato proministro delle Armi e Comandante supremo delle Forze pontificie e, fino al 1870, provvede alla riorganizzazione di ogni componente l’Armata stessa. Un lavoro febbrile, in continua gara con i sommovimenti dei garibaldini in tutta Italia.

I primi grossi impegni arrivarono nel ’67 quando furono aizzati dei focolai di rivolta dentro la Città Eterna che, pur non sortendo gli effetti sperati nella popolazione romana, produssero l’attentato alla Caserma Serristori, l’insurrezione al Lanificio Ajani, duramente repressa, e l’incursione garibaldina con lo scontro a Villa Glori.

All’esterno, invece, i garibaldini, con il tacito appoggio del Regno d’Italia, diedero il via a una vera e propria campagna militare che da nord e da sud mirava a conquistare Roma. Si giunse così alla Battaglia di Monterotondo (25 ottobre 1867) e a quella di Mentana (3 novembre 1867) dove anche il Corpo di spedizione francese diede un determinante contributo, grazie pure ai propri nuovi fucili a retrocarica Chassepot. La disfatta per Garibaldi fu completa. Importanti si rivelarono, per la vittoria pontificia, l’ottimo sistema di comunicazione telegrafica e il codice cifrato in uso.

Al Kanzler, il Pontefice offrì un titolo nobiliare di alto rango, ma egli rifiutò in quanto le sue modeste finanze non gli avrebbero permesso di mantenere uno stile di vita all’altezza del nuovo status sociale. Tuttavia, la vittoria di Mentana non rassicurò il proministro sul futuro, tanto che egli proseguì indefessamente nel rafforzamento dell’Armata pontificia con nuovi arruolamenti e lavori nella fortificazione delle mura sia della Città Leonina che del Forte S. Angelo.

Quando, nel 1870, la sconfitta subita dai francesi a Sedan fece crollare l’impero di Napoleone III, lo Stato della Chiesa era ormai nelle mani della sua armata e, come scrisse Pio IX, «di Dio». Kanzler non si faceva illusioni. Nonostante l’Esercito italiano disponesse di forze nettamente preponderanti, puntava a una resistenza a oltranza, fino all’inevitabile capitolazione di ciò che rimaneva dello Stato della Chiesa, che dimostrasse all’Europa la violenza perpetrata ai danni del Pontefice.

Dopo che Pio IX ebbe rifiutato la proposta di far entrare pacificamente le truppe italiane a Roma, Kanzler si preparò alla difesa proclamando lo stato d’assedio. In pochi giorni le mura furono munite delle artiglierie disponibili e le porte della città furono interrate. Furono richiamate truppe dislocate in provincia e predisposti punti di osservazione.

A poche ore dall’attacco del 20 settembre, l’Armata pontificia fu costretta ad arrendersi, poiché entrambi i sovrani volevano evitare eccessivi spargimenti di sangue. Possiamo immaginare quanto attenersi agli ordini del Papa risultò penoso per un valente comandante come il generale tedesco.

Dopo la Presa di Porta Pia, a 48 anni, la carriera di Kanzler era finita; decise di rimanere a Roma con la famiglia continuando a mantenere l’incarico ormai onorifico di proministro delle Armi. Dopo la morte di Pio IX rifiutò dignitosamente la pensione del governo italiano e visse in condizioni finanziarie molto modeste.

Inaspettatamente, nel 1887, Leone XIII lo nominò barone, e questa volta il Kanzler accettò: “Un titolo elevato senza i mezzi corrispondenti per sostenerlo è un vero peso”, scriveva a un parente: “Il titolo di Barone almeno è più in relazione colla mia modesta situazione finanziaria. L’inaspettata manifestazione del S. Padre è una prova dell’approvazione del S. Padre di quanto operarono le truppe pontificie sotto il mio comando”.

L’anno dopo, sofferente per una piaga al piede, Kanzler morì, serenamente e con tutti i conforti religiosi, attorniato dalla sua famiglia, tra cui il figlio Rudolf che diventerà uno dei più famosi archeologi di Roma antica. La sua famiglia si estinguerà, con la morte in guerra del nipote Angelo nel 1916. Oggi riposa tra i suoi Zuavi al Verano e sulla sua tomba, un sarcofago strigilato in stile romano, due parole all’inizio dell’epitaffio dicono tutto: “BONVS MILES”.