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SALVIFICI DOLORIS

Giovanni Paolo II: «Le epidemie e il dolore collettivo che può vincere il male»

Torniamo alla Salvifici Doloris, l'enciclica del papa santo che ci ricorda quanto dobbiamo temere il peccato più che la morte corporale. Motivo per cui Dio può permettere il male per salvarci, invitandoci ad accogliere la Croce per regalarci la letizia e l’amore della Resurrezione che può trasformare il mondo. «La sofferenza ha una forza enorme nella lotta cosmica fra bene e male». Perciò, «più le strutture di peccato sono grandi, maggiore è il bisogno della Chiesa di ricorrere ad essa».

Ecclesia 03_04_2020

Non solo la gente muore sola e spesso senza sacramenti né funerali, ma migliaia di anziani sono chiusi da soli nelle loro case o negli ospizi (alcuni sono morti abbandonati). Ci sono poi padri e madri di famiglia che hanno perso il lavoro, altri che non hanno più un centesimo nemmeno per fare la spesa. C’è anche chi si dispera, chi è terrorizzato dalla pandemia. Persone che si sono uccise, altre che tremano al pensiero di un futuro economico devastante.

Insomma, la sofferenza recata dal coronavirus non è solo di tipo fisico ma di tipo morale. È una sofferenza che riguarda quasi tutto il mondo occidentale. Quello che negli ultimi decenni si illudeva di averla quasi debellata grazie alla scienza e che oggi si ritrova letteralmente in ginocchio. La maggioranza delle persone ora è concentrata sul male fisico, ma non è questo che deve spaventarci di più. Non è la morte corporale la vera nemica dell’uomo, perché qualcuno l’ha già vinta. Il vero nemico, dunque, ciò che dobbiamo temere, è la morte eterna. Quindi il peccato, la lontananza dell’anima da Dio. Perciò Gesù, sapendo che sarebbe morto e risorto, dice ai suoi discepoli: «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima». E perciò la grazia più grande da chiedere non è la guarigione, ma la salvezza. È questo che la Chiesa oggi ha l’occasione di gridare ad un mondo forse più propenso ad ascoltare perché meno convinto della sua onnipotenza, raccontando a tutti quanto la sofferenza possa essere salvifica.

A spiegare agli uomini come si soffre con speranza, e come si muore, è stato san Giovanni Paolo II con la sua vita e con la sua enciclica Salvifici doloris che profeticamente all’inizio chiarisce così: «Pensando al mondo della sofferenza nel suo significato personale ed insieme collettivo, non si può... non notare il fatto che un tal mondo, in alcuni periodi di tempo ed in alcuni spazi dell'esistenza umana, quasi si addensa in modo particolare. Ciò accade, per esempio, nei casi di calamità naturali, di epidemie, di catastrofi e di cataclismi, di diversi flagelli sociali… In questo modo quel mondo di sofferenza, che in definitiva ha il suo soggetto in ciascun uomo, sembra trasformarsi nella nostra epoca - forse più che in qualsiasi altro momento - in una particolare “sofferenza del mondo”: del mondo che come non mai è trasformato dal progresso per opera dell'uomo e, in pari tempo, come non mai è in pericolo a causa degli errori e delle colpe dell’uomo». Il santo parla di una sofferenza recata dalla natura e di una derivante dalla colpa, ossia dalla separazione dell’uomo dal suo Creatore per cui «soffre in modi diversi, non sempre contemplati dalla medicina…».

Certamente, di fronte a quanto sta avvenendo, possiamo dire con Giovanni Paolo II che la sofferenza può portare «alla negazione stessa di Dio», perciò la Chiesa deve rispondere all’«interrogativo sul senso della sofferenza». Innanzitutto l’enciclica chiarisce che se «la sofferenza ha un senso come punizione, quando è legata alla colpa, non è vero, invece, che ogni sofferenza sia conseguenza della colpa ed abbia carattere di punizione». Anche quando si parla di punizione bisogna poi ricordare che «nelle sofferenze inflitte da Dio al popolo eletto è racchiuso un invito della sua misericordia, la quale corregge per condurre alla conversione: "Questi castighi non vengono per la distruzione, ma per la correzione del nostro popolo"». Ossia perché l’uomo non muoia in eterno, ma torni a Dio: «La sofferenza deve servire alla conversione, cioè alla ricostruzione del bene nel soggetto, che può riconoscere la misericordia divina in questa chiamata alla penitenza. La penitenza ha come scopo di superare il male, che sotto diverse forme è latente nell'uomo, e di consolidare il bene sia in lui stesso, sia nei rapporti con gli altri e, soprattutto, con Dio». Perché l’uomo muore davvero non quando perde la vita corporale, ma «"L’uomo - continua l’enciclica - muore", quando perde "la vita eterna". Il contrario della salvezza non è, quindi, la sola sofferenza temporale… ma la sofferenza definitiva: la perdita della vita eterna, l'essere respinti da Dio, la dannazione».

Questo occorre ricordare, motivo per cui oggi molti fedeli stanno pregando la Chiesa di farsi avanti, i sacerdoti di dare la vita per raggiungere i malati (come hanno fatto alcuni di loro scegliendo di barricarsi negli ospedali per evitare la morte dell’anima dei malati), i reparti di aprire le loro porte ai cappellani. Così da annunciare ai sofferenti (anche solo amministrando i sacramenti) che sebbene «la sofferenza è un subire il male, davanti al quale l'uomo rabbrividisce», da quando «Il Redentore ha sofferto al posto dell'uomo e per l'uomo... Ogni uomo ha una sua partecipazione alla redenzione».

È così che oggi, abbracciando le nostre sofferenze in Cristo Risorto, possiamo salvare il mondo: «Operando la redenzione mediante la sofferenza, Cristo ha elevato insieme la sofferenza umana a livello di redenzione. Quindi anche ogni uomo, nella sua sofferenza, può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo», cioè può salvare il mondo con Lui. San Giovanni Paolo II ricorda quindi alla Chiesa che non deve, come tutti, essere preoccupata innanzitutto di eliminare la sofferenza, perché essa è «un bene, dinanzi al quale la Chiesa si inchina con venerazione, in tutta la profondità della sua fede nella redenzione».

Anche perché quando l’uomo l’accoglie comincia a sperimentare l’amore vero, a cui anela per natura. Questo miracolo, che al mondo pare impossibile, accade perché «nella sofferenza - continua il santo - si nasconde una particolare forza che avvicina interiormente l'uomo a Cristo, una particolare grazia… l’uomo scopre il senso salvifico della sofferenza, ma soprattutto che nella sofferenza diventa un uomo completamente nuovo. Egli trova quasi una nuova misura di tutta la propria vita e della propria vocazione». La sofferenza è quindi «una vocazione», una chiamata altissima, che eleva l’uomo: «Cristo non spiega in astratto le ragioni della sofferenza, ma prima di tutto dice: “Seguimi!”. Vieni! prendi parte con la tua sofferenza a quest'opera di salvezza del mondo, che si compie per mezzo della mia sofferenza! Per mezzo della mia Croce».

Cosa accade a questo punto? Cosa succede all’uomo che abbraccia la croce? «Man mano che l'uomo prende la sua croce, unendosi spiritualmente alla Croce di Cristo… trova nella sua sofferenza la pace interiore e perfino la gioia spirituale». Sì, la gioia che diversi santi hanno vissuto sul letto di morte, ma anche in vite tribolate. «Di tale gioia parla l'Apostolo nella Lettera ai Colossesi: "Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi"». Paolo può dire così perché ha sperimentato la resurrezione e sa quindi che in Cristo non solo la sua sofferenza non è inutile ma salva sé e i «suoi fratelli e sorelle». Non solo poi «è utile agli altri», ma fa «strada alla Grazia che trasforma le anime umane. Essa, più di ogni altra cosa, rende presenti nella storia dell'umanità le forze della redenzione. In quella lotta "cosmica" tra le forze spirituali del bene e del male…le sofferenze umane, unite con la sofferenza redentrice di Cristo, costituiscono un particolare sostegno per le forze del bene, aprendo la strada alla vittoria di queste forze salvifiche. E perciò la Chiesa vede in tutti i fratelli e sorelle di Cristo sofferenti quasi un soggetto molteplice della sua forza soprannaturale». Un'arma potentissima contro satana.

Sopratutto quando l'uomo è più lontano da Dio, come oggi, «quanto più pesanti sono le strutture del peccato che porta in sé il mondo d'oggi, tanto più grande è l'eloquenza che la sofferenza umana in sé possiede. E tanto più la Chiesa sente il bisogno di ricorrere al valore delle sofferenze umane per la salvezza del mondo».

È solo abbracciando, e non rifiutando ad ogni costo il dolore, che il mondo può conoscere l’amore: perché la sofferenza, come abbiamo visto in questi giorni può provocare repulsione, ma anche «amore disinteressato…la sofferenza è presente nel mondo per sprigionare amore, per far nascere opere di amore verso il prossimo, per trasformare tutta la civiltà umana nella “civiltà dell’amore"».