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La guerra

Gaza è un inferno. La commissione Onu accusa Israele di genocidio

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Già 350.000 palestinesi avrebbero lasciato Gaza City dopo l’occupazione da parte delle Idf che bombardano giorno e notte. La popolazione è allo stremo. Il rapporto di una commissione di inchiesta dell’Onu parla di genocidio.

Esteri 17_09_2025
Palestinesi lasciano Gaza City, 16/09/2025 (Ap via LaPresse)

«La porta dell’inferno» preannunciata e auspicata dal ministro israeliano della Difesa, Israel Katz, è ora spalancata. Non era sufficiente l’immane distruzione già perpetrata, per quasi due anni; ora il governo guidato da Benjamin Netanyahu sta radendo al suolo, metro dopo metro, tutto quello che ancora resiste a Gaza. I bombardamenti stanno proseguendo giorno e notte, senza tregua. La popolazione in fuga è allo stremo. Terrorizzata. Affamata. A Gaza City, nonostante l’ordine di evacuazione, vivono ancora centinaia di migliaia di persone. Le cosiddette “aree umanitarie”, nelle quali dovrebbero trovare rifugio i profughi, non sono altro che campi destinati a persone che dopo essere entrate non potranno mai più uscire, se non dopo aver preso la decisione di abbandonare “volontariamente” e definitivamente la Striscia.

È vero quanto preconizzato da Katz: Gaza è diventata un inferno. E si continua a morire. L’elenco dei morti e dei feriti si allunga, ora dopo ora, gli attacchi arrivano da terra e dal cielo, con i carri armati e le bombe sganciate dagli aerei. Un macabro tiro al bersaglio fin troppo facile. I pochi ospedali ancora funzionanti nella città sono stracolmi di feriti. Non ci sono più provviste di medicinali, ma quello che preoccupa maggiormente è la carenza di scorte di sangue. Nel momento in cui scriviamo, almeno 78 persone sono state uccise dalle incursioni aeree dall'alba di ieri mattina.

Secondo fonti dell’esercito israeliano sarebbero già 350.000 i palestinesi che avrebbero lasciato Gaza City. Destinazione: le “zone umanitarie”, appunto, che finora non hanno funzionato, ma il governo Netanyahu ha in progetto di realizzarne ancora. «Non capisco perché si spendano dei soldi per farne altre dodici, se le quattro già realizzate non funzionano», ha detto il capo dell’esercito israeliano, Eyal Zamir, parlando alla commissione Difesa della Knesset.

Elicotteri Apache e droni coprono l’avanzata dei soldati a Gaza City. Le bombe esplodono ripetutamente, mentre sono trascorsi quasi due anni dall’inizio di questa assurda guerra, cominciata con l’attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre 2023. «Non cederemo e non faremo alcuna marcia indietro finché non raggiungeremo il nostro obiettivo», ha tuonato il ministro Katz. «La città di Gaza è considerata una zona di combattimento pericolosa, rimanere nella zona significa esporsi a rischi», ha scritto il portavoce di lingua araba dell'esercito israeliano, il colonnello Avichay Adraee, in un messaggio su X. Gli abitanti della città sono stati nuovamente esortati ad evacuare i loro quartieri e a trasferirsi in una zona umanitaria designata da Israele, nella parte meridionale dell'exclave costiera.

Ma c’è chi resiste. Sono i religiosi e le suore della parrocchia cattolica di Gaza. Ieri mattina, il papa si è collegato telefonicamente con il parroco, padre Gabriel Romanelli. Nella struttura della chiesa sono tuttora ospitati circa 450 rifugiati, ma l’avanzata dell’esercito è alle porte. «Si sentono più vicini i rumori delle operazioni militari, che al momento però interesserebbero altri quartieri di Gaza City e non proprio quello dove si trova la parrocchia», ha detto il parroco a Leone XIV.

Mentre l’esercito israeliano prosegue nella sua opera di morte e distruzione, il segretario di Stato americano, Marco Rubio, era in visita a Gerusalemme, per «capire cosa realmente vogliono fare gli israeliani a Gaza», lasciando intendere che neanche la Casa Bianca è al corrente delle reali intenzioni di Netanyahu. Ma quello che preoccupa maggiormente gli americani è lo strappo che si è creato tra i Paesi del Golfo e gli Stati Uniti, in seguito all’attacco terroristico di Israele nel cuore del Qatar. Un’azione militare che ha minato le basi per un eventuale accordo con Hamas, indebolendo, di fatto, la credibilità di Washington. L'attacco di Doha ha messo, infatti, a dura prova i rapporti tra la Casa Bianca e i suoi principali alleati del Golfo, sollevando preoccupazioni circa le garanzie di sicurezza degli Stati Uniti in una regione importante per gli accordi economici sottostanti e che ospita una grande base militare proprio in Qatar.

L’occupazione di Gaza, per la quale sono stati mobilitati 60.000 riservisti, oltre ai 70.000 già in servizio, non porterà alla resa e alla distruzione di Hamas: metterà, invece, a rischio la vita degli ostaggi ancora segregati nell’exclave musulmana. Il Forum delle famiglie degli ostaggi non ha mai smesso di mobilitare l’opinione pubblica israeliana, e i suoi attivisti hanno realizzato un presidio permanente di fronte all’abitazione del primo ministro. «In seguito alle segnalazioni di incursioni di carri armati e massicci bombardamenti nella città di Gaza, le famiglie degli ostaggi, terrorizzate per la sorte dei loro cari, si sono radunate spontaneamente davanti alla residenza del Primo Ministro a Gerusalemme, per chiedere il salvataggio dei loro cari e degli altri ostaggi», si legge in una nota del gruppo, che rappresenta i parenti della maggior parte degli ostaggi.

Ostaggi che rischiano, ora, di essere uccisi “dal fuoco amico”; prigionieri ridotti alla fame come migliaia e migliaia di palestinesi, che il governo Netanyahu ha deciso di sacrificare pur di cercare di eliminare qualsiasi minaccia proveniente dalla Striscia di Gaza.

Ma non solo Gaza e Qatar, ora anche lo Yemen. «Per la vostra sicurezza, invitiamo tutti quelli che si trovano nel porto di Hodeida e le navi lì ancorate ad evacuare l’area immediatamente», si leggeva nel volantino diffuso dall’esercito israeliano, col quale si invitavano gli abitanti della città yemenita allo sgombero immediato della zona portuale. Poco dopo, l’aviazione israeliana ha colpito una base militare appartenente al regime terrorista degli Houthi, utilizzata per il trasferimento di armi fornite dagli iraniani e destinate agli attacchi contro Israele.

In un rapporto della commissione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite si legge che le autorità e le forze di sicurezza israeliane hanno commesso «quattro dei cinque atti genocidi» definiti dalla Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. E conclude affermando che «il presidente israeliano Isaac Herzog, il primo ministro Benjamin Netanyahu e l'ex ministro della Difesa Yoav Gallant hanno incitato al genocidio e che le autorità israeliane non hanno preso alcuna misura contro di loro per punire tale incitamento». Israele respinge le accuse categoricamente, definendo il rapporto in questione come «parziale e mendace», chiedendo «l'immediato scioglimento di questa commissione d'inchiesta», come ha dichiarato il Ministero degli Esteri in una nota.