Fuori dalle ideologie, un altro Calvino per gli studenti
Ascolta la versione audio dell'articolo
A scuola si propone solitamente una parte di produzione di Italo Calvino che non è la sua parte migliore. C’è invece un altro Calvino da proporre agli studenti, come quello de La formica argentina o della Giornata di uno scrutatore.

Italo Calvino morì quarant’anni fa a causa di un’emorragia cerebrale. Sarebbe partito per gli Stati Uniti per tenere delle lezioni all’Università di Harvard: i testi dei suoi discorsi vennero pubblicati postumi col titolo di Lezioni americane.
In un’intervista rilasciata nel 1982 per la trasmissione intitolata Vent’anni al duemila, Calvino ci consegna il suo testamento spirituale sottolineando come uno degli aspetti che più caratterizzano una società sia il rapporto tra gli anziani e i giovani: «In altre epoche il contrasto tra vecchi e giovani era già marcato. […] Oggi il vecchio non è da rimuovere, è già rimosso. Oggi si tende a separare i vecchi dal resto della società». Calvino si augura che l’uomo conservi la capacità «di vedere la bellezza, di scoprirla, di recuperarla. […] L’importante è il processo per arrivare a vedere la bellezza vera». Il mondo contemporaneo corre il rischio di uccidere la bellezza.
Per affrontare il XXI secolo lo scrittore consiglia di conservare nella mente e nel cuore la bellezza «da bambini, da giovani, anche da vecchi»: un modo è imparare a memoria le poesie, perché le poesie fanno compagnia e l’esercizio della memoria è molto importante nella crescita. In secondo luogo consiglia di diffidare «della facilità, della faciloneria, del fare tanto per fare». Terza e ultima chiave per il terzo millennio consiste nella gratitudine che permette di apprezzare tutto quanto abbiamo e di goderne con la consapevolezza che potrebbe esserci tolto da un momento all’altro, potrebbe sparire in un istante «in una nuvola di fumo». Sono parole sempre attuali, consigli di cui conviene far tesoro.
Questo a cui si è accennato ora non è il solito Calvino sbandierato a scuola: le letture sulla guerra partigiana (per intenderci I sentieri dei nidi di ragno e Ultimo viene il corvo) o la trilogia degli antenati (apprezzabile, ma non l’esito più alto della sua produzione) o le storie di Marcovaldo o ancora la narrativa a carattere scientifico (Le Cosmicomiche e Ti con Zero). Agli Esami di Stato è stato proposto questo Calvino: nel 2015 un brano tratto dal primo romanzo I sentieri dei nidi di ragno (1947) fu lo spunto per l’analisi di testo dei candidati. Il romanziere così si esprime sull’opera: «Questo romanzo è il primo libro che ho scritto, quasi la prima cosa che ho scritto. Cosa ne posso dire, oggi? Dirò questo: il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto». Calvino riconosce che chi scrisse il romanzo che un’intera generazione aveva sempre sognato sulla Resistenza fu un altro, cioè Beppe Fenoglio.
C’è un altro Calvino che varrebbe la pena proporre agli studenti. Un Calvino che rifiuta le ideologie e le definizioni semplicistiche e riduttive e che afferma che l'unica cosa che vorrebbe «poter insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro». Calvino confessa anche all'editore francese François Wahl in una lettera dell’1 dicembre 1960: «Scrivo per imparare qualcosa che non so. Non mi riferisco adesso all’arte della scrittura, ma al resto: a un qualche sapere o competenza specifica, oppure a quel sapere più generale che chiamano esperienza della vita».
C’è un altro Calvino. Il Calvino de Le città invisibili (vedi qui per approfondire; e qui per un'esercitazione) o quello di storie come La formica argentina. Nel lungo racconto Calvino, che considera Montale uno dei suoi riferimenti principali, rappresenta lo stesso male di vivere attraverso una storia basata su fatti davvero accaduti a San Remo e nella riviera di Ponente tra gli anni Venti e gli anni Trenta del Novecento. La prima notte in una casa di vacanza, due giovani sposi sono svegliati dalle urla del figlio: sul suo corpo si muovono impalpabili piccolissime formiche. I due personaggi diventano simbolo della vita frenetica, tumultuosa e angosciante dell’uomo contemporaneo: incalzati come sono dal pensiero delle cose che devono fare e dal desiderio di poter controllare e governare tutto nella vita, verificano l’impossibilità di battersi con quello struggente, «impercettibile nemico che s’era impadronito della […] casa». Come si potrà affrontare quel problema che era dapprima insospettato e inatteso, poi non percepito come temibile e ora individuato come sempre più invasivo e fastidioso?
C’è un altro Calvino, quello della Giornata di uno scrutatore (vedi qui l'esercitazione). Un intellettuale di nome Amerigo Ormea, in cui è possibile riconoscere l’autore, recatosi al Cottolengo per controllare che non avvengano brogli elettorali a favore del partito democristiano, pieno di pregiudizi e di ideologia, vede all’interno di quel mondo «il male di vivere», cioè il dolore, la sofferenza di tanti uomini. Al contempo, osserva il volto felice delle suore e si chiede: «È segno che una beatitudine esiste? […] E, se esiste, allora va perseguita? Va perseguita a scapito d’altre cose, d’altri valori, per essere come loro, le monache?». Ancora più sorprendente è il fatto che gli idioti completi nelle loro carte di identità appaiono felici. Amerigo si chiede cosa abbiano in comune le monache e gli idioti completi. Per entrambi dare un’immagine di sé non è un problema, perché sono liberi dall’esito. Amerigo incontra poi un omone che è orgoglioso delle proprie capacità e mostra gratitudine per le suore attestando con gioia: «Io so fare tutti i lavori da me […]. Sono le suore che mi hanno insegnato. Qui al Cottolengo facciamo tutti i lavori da noi. […]. Grazie alle suore sono riuscito a imparare. Io senza le suore che mi aiutavano sarei niente». I ricoverati del Cottolengo hanno un volto felice perché sono amati, ne sono coscienti e sanno a chi essere grati. Ormea comprende che l’umano arriva dove arriva l’amore, non ha confini se non quelli che gli diamo. «Anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, […] l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città». È il momento della carità.
Ormea ha compreso che, se l’uomo è anche quello del Cottolengo, l’atteggiamento più pratico è quello religioso, cioè stabilire un rapporto tra la propria menomazione e l’universale, tra noi e Colui da cui dipende tutto.
Avremmo mai pensato a questo Calvino, fuori da ogni schema e da ogni ideologia, che rimane stupito di fronte alla realtà incontrata e che ripudia le definizioni fasulle che imprigionano e non comprendono?