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IL RAPPORTO

Donne perseguitate perché cristiane, la realtà sommersa

Rapimenti, conversioni forzate all’islam e violenze sessuali verso donne e bambine cristiane. Aiuto alla Chiesa che Soffre presenta il rapporto “Ascolta le sue grida”, che esamina la situazione di sei Stati tra Asia e Africa. Tra le storie raccontate, la testimonianza di Maira Shahbaz. Ma l’entità delle persecuzioni va oltre le denunce ufficiali. E ACS spiega che le conversioni forzate, come strategia sistematica, «possono essere considerate un vero e proprio genocidio».

Libertà religiosa 26_11_2021

Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), la fondazione di diritto pontificio impegnata nella difesa dei cristiani perseguitati, ha pubblicato un rapporto dedicato alle donne cristiane che è stato presentato mercoledì 24 novembre, alla vigilia della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Si intitola “Ascolta le sue grida. Rapimenti, conversioni forzate e violenze sessuali ai danni di donne e bambine cristiane”.

Il rapporto prende in esame la situazione in sei Stati: Egitto, Iraq, Mozambico, Nigeria, Pakistan e Siria. Oltre ai dati, contiene le storie di 12 donne: due in Iraq, una in Mozambico, tre in Nigeria e altrettante in Pakistan e in Egitto. Nel presentare il rapporto, ACS spiega che l’entità del fenomeno delle conversioni forzate e delle violenze sessuali contro donne cristiane è in gran parte sconosciuta sia nei Paesi esaminati che altrove perché numerosi casi non vengono denunciati. Tuttavia, precisa ACS, “prove sufficienti dimostrano che le atrocità perpetrate contro le donne e le ragazze cristiane sono tanto gravi da essere classificate una catastrofe dei diritti umani”.

Molti sono i motivi per cui le vittime e le loro famiglie decidono di nascondere la violenza subita e di non rivolgersi alle autorità dei loro Paesi per chiedere giustizia. Se vivono in società patriarcali temono lo stigma, il disonore che colpisce una donna che ha avuto rapporti sessuali fuori dal matrimonio, sebbene vi sia stata costretta, e con lei i suoi famigliari. Inoltre, spesso i giudici accettano la versione di una scelta spontanea della vittima fornita dai colpevoli e li assolvono lasciando oltretutto la donna rapita nelle loro mani. La polizia stessa si dimostra reticente a raccogliere le denunce, indagare e assicurare alla giustizia i colpevoli, se addirittura non sono gli agenti stessi che intimano alle famiglie di non parlare. Se poi, come succede ad esempio in alcuni Paesi islamici, la vittima oltre ad appartenere alla minoranza cristiana discriminata e marginalizzata, è anche di condizioni economiche e sociali modeste, i rapitori osano minacciare le vittime e le loro famiglie, sapendo di poterlo fare impunemente.

“Un pomeriggio camminavo nei pressi della mia casa a Madina Town, nella provincia pachistana del Punjab, quando alcuni uomini dall’aria sospetta mi hanno avvicinata. Essendo una ragazza cristiana di 14 anni in un Paese in cui i non musulmani spesso subiscono aggressioni, ero terrorizzata”. Così inizia la testimonianza di Maira Shahbaz che introduce il Rapporto. “Sono stata torturata e violentata. I miei aguzzini hanno filmato le sevizie infertemi e mi hanno ricattata minacciando di diffondere il video. Sono quindi stata costretta a firmare un documento in cui dichiaravo di essermi convertita (all’Islam, n.d.a.) e di aver sposato il mio rapitore. Se avessi rifiutato di farlo, avrebbero ucciso i miei familiari”.

La piccola Maira è stata rapita nell’aprile del 2020, costretta a convertirsi all’Islam e a sposare Mohamed Nakash, un musulmano. Essendo minorenne non si poteva sposare e non poteva neanche convertirsi senza l’autorizzazione del padre. Tuttavia, il primo giudice che ha esaminato il suo caso ha creduto al “marito” secondo cui Maira aveva 19 anni. Una seconda sentenza ha invece dato ragione alle prove fornite dall’avvocato di Maira. Il giudice ha ordinato che la bambina tornasse dai genitori, ma cinque giorni dopo soltanto un altro giudice ha di nuovo ribaltato la sentenza. La ragazzina pochi giorni dopo è riuscita a fuggire insieme ai genitori e a tre fratelli (la sua vicenda è stata seguita e documentata nel blog “Cristiani perseguitati” della Nuova Bussola, vedi qui, qui, qui e qui). In Pakistan sono tante le giovani cristiane - quasi sempre minorenni - rapite, convertite e sposate a forza e molte non rivedono mai più le loro famiglie.

Sono tante anche le donne cristiane copte rapite in Egitto da uomini musulmani che le violentano e le schiavizzano e spesso le costringono al matrimonio. Riferisce il Rapporto che le autorità egiziane, tuttavia, negano che ciò accada: “La narrazione abituale dei portavoce statali è che nella maggior parte dei casi si tratti di giovani donne che fuggono volontariamente con uomini di un’altra religione”.

Nella loro forma estrema, spiega ACS, “le conversioni forzate di donne e bambine cristiane possono essere considerate un vero e proprio genocidio. I jihadisti, infatti, colpiscono le donne con la chiara intenzione di distruggere le comunità religiose minoritarie”. È il caso del gruppo jihadista Boko Haram, attivo nel nord-est della Nigeria. Il 90 per cento delle donne e delle ragazze rapite dagli islamisti sono cristiane. Lo erano, ad esempio, quasi tutte le 276 studentesse di età compresa tra 16 e 18 anni sequestrate nel 2014 da Boko Haram a Chibok, per le quali si mobilitò la comunità internazionale. Circa 100 di loro non sono mai state liberate. Sono jihadisti anche i combattenti che sequestrano donne per lo più cristiane, ma non solo, nella provincia di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico, dove dal 2017 sono attivi gli al-Shabaab, un gruppo affiliato all’Isis. ACS riporta i risultati di uno studio realizzato dall’Osservatorio dell’Ambiente Rurale, un think tank locale, secondo cui le ragazze cristiane rapite sono costrette a convertirsi all’Islam sotto minaccia di essere usate come schiave. In Mozambico sarebbero già state rapite più di mille donne e ragazze.

Il Rapporto dedicato alle donne, spiega ACS, intende essere “uno strumento operativo per sollecitare interventi urgenti. Per questo motivo, oltre a essere destinato ai benefattori della Fondazione, si rivolge a politici, funzionari pubblici, gerarchia ecclesiastica, giornalisti e ricercatori”. Può essere consultato al link indicato dalla fondazione pontificia.