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Davos, le proposte per il futuro sono un incubo totalitario

Segue dalla puntata precedente il commento sul World Economic Forum di Davos. Le proposte del prestigioso forum mondiale seguono tutte la stessa logica: meno spostamenti, meno emissioni, vegetarianesimo, abbandono del contante e della proprietà privata (a favore della sharing economy). E molto più controllo sociale. 

Economia 02_02_2023
Klaus Schwab

Segue dalla parte 1

Una delle tematiche al centro del Forum di Davos, come sempre, è stata la cosiddetta transizione energetica, nella prospettiva di vincere la sfida rappresentata dal preteso “cambiamento climatico di origine antropica”. Dopo avere definito le metriche ESG che orienteranno investimenti pubblici e privati per molti anni a venire, le ultime novità riguardano la transizione alimentare (abbandono degli allevamenti intensivi nella prospettiva del vegetarianismo, dell’introduzione della carne sintetica e degli insetti nell’alimentazione umana) e la conversione delle abitazioni nella prospettiva delle emissioni zero di anidride carbonica, come attualmente allo studio della Commissione Europea. I singoli provvedimenti vanno letti come tessere di un mosaico, il cui orizzonte di riferimento è quello di un generalizzato e profondo cambiamento degli stili di vita, passando da un’economia basata sulla proprietà privata di beni a una basata sulla condivisione di servizi, la cosiddetta sharing economy.

Una delle frontiere più preoccupanti riguarda la ridefinizione delle città nella prospettiva delle cosiddette “15-Minute Cities”: l’idea propagandata e accattivante è quella della cosiddetta smart city, dove tutti i servizi essenziali nelle grandi città devono essere resi accessibili in un intorno di 15 minuti dall’abitazione, in modo da ridurre gli spostamenti; in realtà, l’obiettivo è controllare gli spostamenti inserendo dei controlli automatici a mezzo di telecamere diffuse ovunque nelle città, ledendo così la privacy e la libertà, fino a definire multe in automatico per chi si muove troppo al di fuori del “distretto” di residenza: un sacrificio necessario sull’altare della sostenibilità. Si va, insomma, verso un vero e proprio socialismo verde, in cui la pretesa crisi climatica costituisce l’occasione per attuare uno statalismo climatico. In un intervento sul tema, l’inviato speciale del presidente statunitense per il clima, l’ex-segretario di Stato John Kerry, ha esordito con: «come cambiamo il modo in cui le persone pensano e parlano di questo? […] e perché persone adulte […] in teoria intelligenti ignorano la scienza, la matematica e la fisica e non fanno ciò che si dovrebbe fare? […] ed è davvero straordinario che noi, una selezione ristretta di esseri umani […] siamo in grado di sedere in una stanza e trovarci insieme e davvero parlare di come salvare il pianeta […] sembra una cosa da extra-terrestri …] ma, davvero, è ciò che siamo». Insomma, quasi il celebre discorso di San Crispino nell’Enrico V di William Shakespeare: We few, we happy few, we band of brothers…

Oltre all’ “emergenza climatica” permane poi sempre quella sanitaria, divenuta una costante della nostra vita. Ricordiamo tutti come l’epidemia CoViD-19 fosse stata indicata da Schwab come una «grande opportunità per ripensare, re-immaginare e resettare il nostro mondo», un’opportunità da cogliere, e da «cogliere in fretta»: ma si sa che le epidemie, purtroppo, non durano più di due o tre anni al massimo ed ecco che Bill Gates ha attirato l’attenzione sulle prossime epidemie, quasi fossero dei rilasci programmati e inevitabili del sistema operativo Windows. Si alimenta così quello “stato mentale” di “crisi permanente”, o per usare le parole utilizzate da Schwab, di «policrisi», una situazione in cui convergono molti rischi e crisi differenti: crisi energetica, alimentare, sociale, geo-politica, climatica, tecnologica. Insomma, uno “stato di eccezione” caratterizzato da frammentazione crescente che richiede maggiore collaborazione, e quindi giustifica l’accentramento di risorse e decisioni a un livello superiore a quello degli stessi Stati sovrani, in cabine di regia gestite da una tecnocrazia di competenti: nulla di nuovo, insomma, il mantra a Davos è sempre lo stesso, espressione di una hybris che sa di gnosticismo in salsa tecnocratica.

Tra i temi onnipresenti le Central Bank Digital Currencies, nella prospettiva di abolire il contante e andare verso una cashless society: l’abbinamento dell’identità digitale porterebbe a una tracciatura completa di tutte le informazioni rilevanti, dalle transazioni economiche agli spostamenti, dai consumi allo status vaccinale. Su quest’ultimo punto, l’ex premier inglese, Tony Blair, ha parlato della necessità di costruite una «infrastruttura digitale globale», in modo che i governi possano avere accesso ai dati sanitari di tutti, in tempo reale, per sapere quali e quanti vaccini ciascun cittadino ha fatto. Schwab, da par suo, ha parlato di evoluzioni tecnologiche che consentiranno di conoscere anche i pensieri, in modo da rendere la comunicazione sempre più veloce ed efficace. La deriva transumanista è ben rifessa dal pensiero del famoso storico, filosofo, accademico e saggista israeliano, Yuval Noah Harari (1976-), profeta di una nuova tecno-religione con prospettive superomistiche, grazie alla connessione al cloud e all’uso degli algoritmi con, all’orizzonte, il Metaverso, che evoca quasi una nuova creazione. L’intelligenza artificiale aprirà, insomma, orizzonti nuovi e inimmaginabili.

All’interno della grande narrazione tecnocratica di Davos, l’unica nota stonata, tra i grandi del mondo, è quella del patron di Tesla, Space-X, Neuralink e, ultimamente, anche del social network Twitter, Elon Musk. In tema di demografia, ad esempio, in un suo tweet del 24 gennaio, Musk ha dichiarato: «il collasso della popolazione è un grave rischio per il futuro della civiltà». E non è la prima volta che Musk entra a gamba tesa contraddicendo la vulgata neomalthusiana dell’ONU e del WEF. Non sorprende che non sia stato invitato a Davos: lui, tra l’altro, è uno dei pochi grandi della Terra a non comparire tra i partner del WEF. La grande novità degli ultimi mesi è stata proprio l’acquisto del social Twitter, con l’accesso a informazioni che hanno confermato il dubbio di tanti, e cioè che il potere politico statunitense avesse interferito per sostenere la candidatura presidenziale di Biden, e poi la narrazione unica climatica e poi pandemica, con la necessità di una gestione autoritaria a mezzo di lockdown e ricatti vaccinali. Il mondo liberal teme che “Mr. Tweet”, l’alias di Elon Musk su Twitter, possa ora rompere il monopolio della grande narrazione del pensiero unico dominante. E, infatti, si parla della necessità di impedire la diffusione di fake news e hate speech, ovvero di qualsiasi opinione, anche autorevole e documentata, che possa indurre una dissonanza cognitiva nella pubblica opinione. Non stupisce che Elon Musk sia oggetto di forti attacchi, e molti ancora ne attirerà a sé in futuro.

Un’altra nota molto positiva, appena spentisi i riflettori sulla montagna incantata di Davos, è arrivata il 25 gennaio, con le improvvise dimissioni dalla carica di primo ministro della Nuova Zelanda di Jacinda Ardern (1980-), in passato membro degli Young Global Leaders (YGL), la scuola di leadership del WEF. La Ardern si era distinta per la gestione autoritaria e repressiva della crisi sanitaria, imponendo in Nuova Zelanda un modello cinese, un mix di assenza di libertà e ideologia woke. Il fallimento è stato totale. Chissà che lo stesso destino non capiti anche al suo omologo canadese, il primo ministro Justin Trudeau (1971-), anch’egli pupillo di Schwab ed ex-YGL, distintosi per le politiche repressive del dissenso, fino a bloccare i conti correnti dei manifestanti e dei sostenitori del Freedom Convoy, la manifestazione pacifica di protesta in seguito all’imposizione dell’obbligo vaccinale ai camionisti che attraversavano il confine con gli Stati Uniti. D’altronde, anche Vladimir Putin era stato uno YGL…

Davos: potenti sì, onnipotenti no.