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D’Avenia: alla scuola serve un vero "appello"

Nel romanzo "L'Appello" si trovano i problemi dei ragazzi di oggi che non trovano spazio di ascolto nella scuola. Il docente Omero decide invece di partire dalle loro domande guidandoli con la sua passione per la vita e per il loro destino. In questa avventura si misura la differenza tra la pura “istruzione” e una effettiva “educazione”. Una questione ancor più urgente in tempi di Dad.

Educazione 01_12_2020

Terminata la lettura de L’appello, l’ultimo intenso romanzo - il quarto - di Alessandro D’Avenia, non si può che pensare: se tutti gli insegnanti “guardassero” i ragazzi così! Eppure il protagonista, il professor Romeo, docente di Scienze, è non vedente: non a caso l’autore lo chiama Omero come il celebre poeta greco, anch’egli cieco. Quindi in realtà non riesce affatto a “vedere” fisicamente la decina di studenti piuttosto mal assortiti della sua problematica classe, che raccoglie i casi disperati dell’istituto in cui insegna. Per di più è un supplente e quella classe scombinata è una quinta liceo scientifico che deve prepararsi agli esami di maturità.

Il professor Omero si affida inizialmente allo strumento tradizionale di ogni docente per conoscere i suoi alunni: l’appello. Ma lo trasforma in una possibilità di espressione e comprensione profonda dei suoi ragazzi, che gli consente di costruire un rapporto vero con loro. Utilizzando i sensi dell’udito, dell’olfatto e del tatto, non potendo ovviamente affidarsi allo sguardo che nasconde dietro gli occhiali scuri, cerca di conoscere in modo non superficiale i dieci differenti tipi umani che gli sono capitati, ma che potremmo ritrovare facilmente in ogni classe. Scopre in questo modo le loro ferite laceranti, i desideri nascosti e i sogni sepolti dalla fatica e dalla sofferenza.

L’appello, a cui viene dato ogni giorno grande spazio, assume un significato particolare, perché in ogni nome urge tutta la vita che ciascuno è, in modo unico. Così Caterina fa volontariato con ragazzi fragili perché odia la falsità e chi ha un handicap non può fingere, Ettore si divide drammaticamente tra i genitori separati, Elisa ha paura del mondo reale al punto che se ne costruisce uno immaginario, Elena è ossessionata dalle aspettative del padre e nasconde un segreto inconfessabile, Cesare detto Ruggine vive in comunità e si esprime con un rap in rima, Achille è malato d’asma e si rifugia nel computer, Stella è bloccata dalla mancanza del padre morto quando lei aveva solo dieci anni, Oscar fa pugilato per aiutare la mamma abbandonata da un papà violento, Mattia si droga come il suo mito Rimbaud, Aurora cerca il lato luminoso della vita ma odia il suo corpo. Sono i problemi, le angosce e le difficoltà di tanti ragazzi di oggi che non trovano spazio di ascolto e accoglienza nella scuola.

Con l’appello di ogni giorno, invece, si cresce tutti insieme. Ma si impara anche. Per le sue originali lezioni il docente Omero decide di partire dalle domande, dai perché nati dall’osservazione della realtà, in un percorso di ricerca guidato da lui, il “maestro”, che accompagna i “discepoli”, trascinati dalla sua passione e dal suo “sguardo” attento su di loro. L’esperienza è talmente significativa che i ragazzi vorrebbero coinvolgere anche gli altri insegnanti, tutti gli studenti della scuola e addirittura l’intera Italia. Si impegnano perciò, utilizzando anche i mezzi mediatici, in una sorta di rivoluzione pacifica, ma non priva di effetti collaterali imprevisti e dolorosi.

Vengono a galla così tutte le ingenuità e i fallimenti propri di un progetto utopistico, ma che ha radici in un bisogno di attenzione e amore ineliminabili. In questa avventura, dai risvolti a tratti paradossali ma sempre legati a un’esigenza di autenticità, si misura la differenza tra la pura “istruzione” e una effettiva “educazione”. E su questo aspetto la nostra scuola, oggi confinata nella “distanza” e ossessionata dalla “sicurezza”, deve sicuramente cambiare. Come? Riconoscendo l’inefficacia di tanti progetti educativi concentrati esclusivamente sulla misurazione delle competenze, senza una reale preoccupazione per il destino umano dei ragazzi. Progetti spesso condivisi dai genitori stessi, poco interessati alla crescita interiore dei loro figli.

La vicenda del romanzo è raccontata tra ragionamenti filosofici, spunti diaristici della vita del professore, quotidianità del mondo della scuola e della vita dei ragazzi. Emerge anche prepotente il desiderio di costruire un mondo nuovo capace di vero amore, che traspare dalla narrazione a balzi, ricca di metafore e qualche predicozzo. Il finale commovente ribadisce l’urgenza di una scuola diversa, più umana, grazie a un rapporto schietto tra docente e alunni. Colpisce, nella storia di questi dieci ragazzi, il fascino della costruzione di relazioni sincere, di cui le istituzioni scolastiche di oggi hanno grande bisogno, proprio per favorire l’apprendimento e la maturazione personale di ogni studente.

Il messaggio di D’Avenia-Omero è semplice ma impegnativo: “Salvare ogni nome (l’appello) può salvare il mondo”. Altrimenti i nostri ragazzi, quando finalmente potranno ritornare nelle loro aule, in presenza, si annoieranno di nuovo, come e più di prima, e non troveranno ciò che davvero cercano nella cultura. È un’esperienza, quella dell’incontro pieno di senso tra chi è in cattedra e chi è sui banchi (o alla scrivania di casa) che si può cominciare subito, anche all’interno della povera didattica a distanza dell’interminabile era Covid.