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I DATI NON MENTONO

Covid, patologia geriatrica: quegli anziani andavano curati

A quasi 100 giorni dall'inizio dell'epidemia è tempo di stilare i primi bilanci con i numeri dell'ISS: l’età media dei deceduti è di 80 anni, il tasso di letalità fino ai 40 anni è dello 0,1%, tra i 70 e gli 80 è del 25% e sopra gli 80 è del 30%. Il 60% dei contagiati ha contratto la malattia in una Rsa. Il COVID-19 è stata emergenza geriatrica a danno di persone anziane e fragili, che sono i veri “ultimi” e che non andavano respinte, ma avevano bisogno di cure da attuare nelle prime fasi della malattia, non di “accompagnamenti compassionevoli”.
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Attualità 23_05_2020

Ci avviciniamo ai 100 giorni dell’epidemia in Italia. È tempo dunque di trarre un primo bilancio di quanto è accaduto, e ragionarvi sopra. La matematica non è un’opinione, si dice, e in effetti i dati epidemiologici ci possono dare elementi di valutazione molto importanti. Si tratta dei dati ufficiali disponibili sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità, corredati di grafici e tabelle. Tutti questi numeri attestano una discesa costante, nettissima della curva epidemica, cominciata già dalla fine di marzo. Guardiamo in questi dati al numero più importante, che è quello dei decessi, che sono ad oggi oltre 32.000. Tuttavia, è molto interessante, per capire cos’è il Covid 19, guardare a questo dato scorporato per fasce di età. Si scopre così che in tutta Italia i morti sotto i 50 anni sono stati circa 300. Il 96% dei deceduti aveva più di 60 anni. Il tasso di letalità fino ai 40 anni è dello 0,1%. Tra i 40 e i 60 è poco più dell’1%, tra i 60 e i 70 anni è del 10%, tra i 70 e gli 80 è del 25%, e sopra gli 80 è del 30%. L’età media dei contagiati è di 61 anni, e l’età media dei deceduti è di 80 anni.

Nel 35,7% dei casi segnalati viene riportata almeno una co-morbidità, come patologie cardiovascolari, patologie respiratorie, diabete, deficit immunitari, patologie metaboliche, patologie oncologiche, obesità, patologie renali o altre patologie croniche. Il vero problema quindi non è il virus in sé, descritto come un mostro invincibile, ma il quadro diffuso di malattie croniche tipiche di una società come la nostra. Inoltre, l’alto tasso di mortalità negli anziani è stato condizionato anche dalle scelte selettive di ammissione alle terapie intensive che hanno portato di fatto a rinunciare a proseguire le cure limitandosi ad “accompagnare” alla morte i pazienti. Ancora la mortalità come è stato già dimostrato avrebbe potuto essere diminuita ulteriormente se si fossero avute tempestivamente informazioni relative alle terapie funzionanti, dal trattamento col plasma immune all’eparina e alla clorochina.  

Un altro dato molto importante è quello che viene dall’analisi dell’informazione relativa al luogo di esposizione: il 60% dei contagiati infatti ha contratto la malattia in una residenza sanitaria assistenziale (Rsa) o una comunità per disabili. Il 18% si sono contagiati in ambito familiare, mentre il 7% si sono contagiati in ospedale o in ambulatorio. Due terzi insomma dei malati hanno contratto il virus in un ambiente sanitario: un dato impressionante, che mostra quale sia stato il vero punto debole del sistema-nazione. Sono stati diagnosticati 25.704 casi tra operatori sanitari (età mediana 48 anni, 30% di sesso maschile), pari all'11,5% dei casi totali segnalati. I dati indicano che la letalità tra gli operatori sanitari è inferiore rispetto alla letalità totale, verosimilmente perché gli operatori sanitari asintomatici e pauci-sintomatici sono stati maggiormente testati rispetto alla popolazione generale.

Questi dati ci dicono inequivocabilmente che il COVID-19 ha rappresentato una vera e propria emergenza geriatrica. Si è trattato di una malattia che ha colpito in stragrande maggioranza  persone anziane e fragili. Persone che per certi versi “non fanno notizia”, che vivono ai margini della società, che sono i veri “ultimi”. Persone che avevano e hanno bisogno di maggiore attenzione. Persone che avevano bisogno non di “accompagnamenti compassionevoli”, ma di cure, da attuare nelle prime fasi della malattia, senza dover arrivare alle soglie delle terapie intensive (per poi esserne respinti per mancanza di posti), attraverso interventi tempestivi di identificazione della malattia.

Questa - come ha affermato negli scorsi giorni il professor Giulio Tarro - non si può considerare una pandemia, e non c’è paragone con la Spagnola, la quale mieteva vittime più tra i giovani che tra gli anziani. Il Covid invece - come abbiamo visto - lascia indenni i giovani.

Il panico generalizzato ha prodotto una dimenticanza colpevole di queste persone fragili, ora nella fase attuale invitate addirittura a proseguire il proprio isolamento sociale, anche dalla Chiesa che li invita a non venire a Messa, facendo così venir meno anche quel conforto che viene dalla vita sacramentale. Per loro dunque si prospetta un lockdown permanente, una reclusione marginalizzante. Ciò invece di cui hanno bisogno è di essere protetti perché soggetti più fragili e portatori di altre patologie, di essere presi in considerazione e curati.