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il caso englaro

Condannato Lucchina, "colpevole" di voler salvare Eluana

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L’allora direttore generale della Sanità lombarda si era opposto all'uccisione della 39enne. Oggi dovrà sborsare 175mila euro alla Regione. Una sentenza contro la legge naturale.

Vita e bioetica 04_06_2024

La vicenda Englaro pare non aver mai fine. Riavvolgiamo il nastro e ricordiamo le tappe salienti di carattere giuridico di questa vicenda. Per sei volte i giudici avevano negato al padre, Beppino Englaro, la possibilità di interrompere nutrizione e idratazione alla figlia Eluana, finché nel 2007 la Cassazione e nel 2008 la Corte di Appello di Milano avevano acconsentito alla richiesta eutanasica del padre. Il ragionamento fu il seguente: attraverso una ricostruzione a posteriori, i giudici erano arrivati alla convinzione che Eluana, in quelle condizioni, non avrebbe mai voluto vivere. Dunque, stante la sua indisponibilità ad esprimere un consenso valido, ci avrebbe pensato il tutore, ossia il padre, a scegliere di morire. Tutto questo nel suo best interest.

All’ordine dei giudici di far morire la 39enne Eluana, l’allora direttore generale della Sanità della Lombardia Carlo Lucchina oppose un netto rifiuto – in una nota scrisse che i medici sarebbero venuti «meno ai loro obblighi professionali» se avessero provocato la morte di Eluana – rifiuto sostenuto dal parere dell’Avvocatura regionale e da un comunicato stampa del Ministero della Salute in cui si affermava che le strutture sanitarie regionali non erano obbligate ad uccidere la giovane donna.

Beppino Englaro nel gennaio del 2009 si rivolse al Tar che gli diede ragione, ma la Regione rimase ferma nel suo proposito. Allora il padre di Eluana se ne andò ad Udine dove la figlia trovò la morte per fame e per sete. Tenuto conto della sentenza del Tar, la Regione fu costretta a risarcire il padre con 175mila euro perché “costretto” a trasportare la figlia fuori regione. Inevitabilmente, poi, la Corte dei Conti aprì un procedimento a carico di Lucchina perché a sua volta doveva risarcire la Regione, che, per dirla in termini semplici, aveva pagato per conto suo. In primo grado Lucchina vinse, perché la sua fu una decisione «ponderata».
Ma ci fu il ricorso e ieri è arrivato il verdetto: Lucchina dovrà sborsare 175mila euro a favore della Regione Lombardia. La Corte dei Conti ha qualificato il rifiuto dell’allora dg come una «patente violazione dei propri doveri di servizio, […] rifiuto assoluto […] frutto di una personale ed autoritativa interpretazione del diritto alla vita e alla salute».

L’ingiustizia di cui è stato oggetto Lucchina sta nelle premesse di tutta questa vicenda, non nelle conclusioni. Tentiamo di spiegarci meglio. Le sentenze della Cassazione e della Corte di Appello di Milano erano contra legem. Infatti allora non era stata ancora varata la legge 219/17 la quale prevede che nel caso di persona incapace – come lo era Eluana – della sua vita e della sua morte può decidere il rappresentante legale. Prima di questa legge, il nostro ordinamento prevedeva che il rifiuto delle cure e persino di alimentazione e idratazione poteva essere legittimamente espresso solo da persona maggiorenne capace di intendere e volere. Nel caso invece di minore o di persona comunque incapace per motivi di salute, il paziente doveva essere sempre curato e nessuno, nemmeno il rappresentante legale, poteva decidere al suo posto se accettare o rifiutare alcune terapie. Dunque secondo la disciplina normativa dell’epoca Eluana non poteva morire.

I giudici di allora invece fecero spallucce alle leggi e redassero sentenze che furono i canovacci ispiratori della futura legge 219. Stanti quelle sentenze seppur ingiuste, la Regione Lombardia e quindi il dott. Lucchina avrebbero dovuto, in punto di diritto, dare corso al contenuto di quei dispositivi, ma così non fecero. Logico quindi, sempre secondo una prospettiva meramente giuridica, il ricorso al Tar e, a seguito del rifiuto di uccidere Eluana, la condanna della Regione al risarcimento in favore di Beppino. Inevitabile, infine, la condanna di Lucchina per i danni che aveva provocato all’erario. Dunque stanti le premesse erronee – le sentenze di Cassazione e Appello – le conclusioni altrettanto erronee – la condanna della Regione e di Lucchina – sono state inevitabili sotto il profilo giuridico.

Se è vero che la Regione e Lucchina, nella prospettiva giuridica, avrebbero dovuto dar corso alle sentenze eutanasiche di cui sopra, di contro, sotto il profilo morale, non potevano che agire come hanno agito. Di fronte ad una sentenza ingiusta che obbligava ad uccidere una innocente, non essendo riusciti a ribaltarla con gli strumenti giuridici, l’unica condotta eticamente lecita era quella dell’astensione dal male, ossia il rifiuto di legittimare un assassinio.

Viene in mente in modo quasi automatico Sofocle. Creonte, Re di Tebe, vieta di seppellire il corpo di Polinice, ma la sorella di questi, Antigone, non obbedisce ad un simile divieto ingiusto e così si rivolge al tiranno: «Non pensavo che i tuoi editti avessero tanta forza, che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte ed incrollabili degli dei. Infatti, queste non sono di oggi o di ieri, ma sempre vivono, e nessuno sa da quando apparvero» (Sofocle, Antigone).

Il riferimento è alla legge naturale, quella legge che comanda di non uccidere l’innocente, comando che vale sempre e comunque, anche nel caso in cui una sentenza obbligasse a compiere l’opposto. Il dott. Lucchina, pagando un prezzo assai salato, ha obbedito a questa legge scritta nel cuore di ciascuno. Ha giustamente e doverosamente anteposto la legge naturale ad un ingiusto diritto positivo. Ha anteposto la vita alla morte.



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