Codice della strada, centrodestra contro la norma in stile Zan
Ascolta la versione audio dell'articolo
I senatori Malan e Pogliese propongono giustamente di abrogare il comma sui «messaggi sessisti» sulle strade e i media si scatenano. In realtà quella norma è liberticida, come un Ddl Zan mascherato. Spieghiamo perché.

Vigente il governo Draghi, nel 2021, Alessia Rotta (Pd) e Raffaella Paita (Italia Viva) introdussero nel Codice della strada la seguente modifica: «È vietata sulle strade e sui veicoli qualsiasi forma di pubblicità il cui contenuto proponga messaggi sessisti o violenti o stereotipi di genere offensivi o messaggi lesivi del rispetto delle libertà individuali, dei diritti civili e politici, del credo religioso o dell’appartenenza etnica oppure discriminatori con riferimento all’orientamento sessuale, all’identità di genere o alle abilità fisiche e psichiche». (art. 23, 4-bis, clicca qui per un approfondimento). Ora il capogruppo al Senato di Forza Italia, Lucio Malan, e il senatore di Fratelli d’Italia, Salvo Pogliese, hanno proposto un emendamento al disegno di legge “Concorrenza” (S.1578) per eliminare il comma 4-bis e altri due collegati di valore attuativo. I media si sono subito scatenati. Il centrodestra sarebbe a favore di pubblicità sessiste e omofobe. Vediamo come stanno le cose.
In primo luogo domandiamoci se questa nuova norma del Codice della Strada sia necessaria. Risposta: no. Infatti, in prima battuta, abbiamo una norma che già tutela alcune categorie di persone indicate dal comma 4-bis. È l’art. 604-bis del Codice penale (ex legge Mancino) il quale sanziona chi «propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi». Si potrebbe obiettare che questa norma tutela solo alcune categorie di persone, non tutte quelle indicate dal comma 4-bis. Vero, ma in parte. Infatti la giurisprudenza, purtroppo, interpretando in senso estensivo il divieto del 604-bis, ha ricompreso come categorie protette anche le persone omosessuali. Diciamo “purtroppo” perché i giudici non potevano farlo. Infatti la norma penale deve rispettare il principio di tassatività: solo le condotte indicate espressamente, chiaramente e in modo preciso nella norma possono essere illegittime. Questo perché il cittadino deve sapere in anticipo quali condotte sono legittime e quali no. Dunque tutte quelle categorie non indicate dall’art. 604-bis – persone omosessuali, anziani, disabili, etc. – rimangono fuori dalla tutela penale e non possono farle rientrare i giudici. Infatti, proprio nel rispetto del principio di tassatività, in ambito penale è vietata l’interpretazione analogica. Ma più del divieto di analogia vale la spregevole ideologia. Detto tutto ciò, ribadiamo che le persone omosessuali sono già tutelate dalla giurisprudenza, nonché, ovviamente, dalla normativa penale (pensiamo ai reati di diffamazione, lesioni personali, violenza privata, etc.).
Il comma 4-bis poi è inutile perché è già efficace il Codice di autodisciplina pubblicitaria, il quale impone che «la comunicazione commerciale non deve offendere le convinzioni morali, civili e religiose. Essa deve rispettare la dignità della persona in tutte le sue forme ed espressioni e deve evitare ogni forma di discriminazione, compresa quella di genere» (art. 10; l’art. 11 riguarda esplicitamente la tutela dei minori). La formulazione di questo articolo è giustamente di carattere generale. In tal modo va a tutelare un ampio spettro di categorie, tra cui quelle indicate dal comma 4-bis. Aggiungiamo che, in caso di pubblicità che non rispetti gli artt. 10 e 11, la stessa può essere rimossa.
Da ultimo c’è da ricordare che ogni cittadino e qualsiasi associazione possono agire in sede civile per la rimozione del messaggio pubblicitario offensivo e chiedere il risarcimento danni ex artt. 2043 e 2059 C.c. e questo è un forte deterrente per i pubblicitari. Quindi il singolo è già tutelato dalle pubblicità offensive grazie alle norme del Codice penale e civile e grazie al Codice di autodisciplina pubblicitaria.
Ma passiamo al nocciolo della questione. Banale a dirsi, tutti noi siamo contrari all’ingiusta discriminazione, a messaggi sessisti, offensivi, denigratori etc. Ma c’è un problema di fondo. Il divieto indicato nel comma 4-bis riguarda condotte troppo generiche e vaghe: quando un messaggio pubblicitario è sessista, violento, stereotipato, offensivo o lesivo? Raffigurare su un cartellone pubblicitario una bella donna vestita di tutto punto per alcuni può essere interpretato come un messaggio sessista, per altri come un messaggio che esalta la bellezza della donna. È lo stesso problema, ben più marcato, dell’art. 604-bis C.p.: quando abbiamo una condotta odiosa o discriminatoria o che esprime superiorità? Come già appuntato, non delineare con precisione il confine tra il lecito e l’illecito è ingiusto verso il cittadino che deve sapere con esattezza quali condotte lo porteranno in prigione e quali no. Insomma, la vaghezza della descrizione delle condotte vietate porta all’incertezza nelle condotte da scegliere e questo in uno Stato di diritto non può essere permesso.
Stessa imprecisione la rinveniamo quando il comma 4-bis indica l’oggetto della lesione causata dal messaggio pubblicitario in riferimento alle libertà individuali e ai diritti civili e politici. Queste sono locuzioni di così ampio spettro che, volendo, possiamo far confluire in esse tutto e il contrario di tutto. Anche in questo caso sarebbe stato necessario indicare con maggiore precisione quali potevano essere i beni oggetto di lesione. Secondo quanto imposto dallo stesso art. 23 del Codice della strada, doveva farlo, sia in riferimento alle condotte che ai beni lesi, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti emanando le relative direttive per l’applicazione della norma. Ma questo non è mai successo e dunque la norma è rimasta indeterminata nella sua parte precettiva.
E qui sta il punto. Giocando, da una parte, sulla vaghezza e, su altro fronte, sulla onnicomprensività del divieto contenuto nel comma 4-bis, un cartellone pubblicitario che promuove un gay pride in cui si vede un trans vestito come la Vergine Maria potrebbe essere interpretato come mera espressione della libertà di pensiero e non cadrebbe sotto la scure del divieto; di contro, un cartellone pubblicitario, come quello di Pro Vita & Famiglia, in cui si legge «La mia scuola ha permesso anche ai maschi di usare i bagni delle femmine», sarebbe censurato dal comma in questione perché discriminatorio della cosiddetta “identità di genere”. Due pesi e due misure.
Ergo, questo comma è ideologico perché al servizio esclusivamente di una parte per silenziare gli oppositori. È una clava da dare in testa a chi non si allinea al mainstream. Come scrisse nel 2021 Tony Brandi, presidente di Pro Vita & Famiglia, questa modifica al Codice della strada è un Ddl Zan mascherato perché impedisce l’espressione della libertà di pensiero nel rispetto della dignità personale. Da qui la giusta decisione di Malan e Pogliese di voler abrogare il comma liberticida.
Ma il problema vero è ancora più a monte. Infatti è la verità stessa ad offendere chi è nell’errore. Potrai esprimerla anche nei modi più caritatevoli e rispettosi possibili, ma chi ha sposato l’errore si sentirà sempre insultato, oltraggiato, vilipeso, denigrato, discriminato, incompreso, calunniato e offeso nell’intimo dalla verità. E vorrà punire chi la predica. Ad Uno, tanto tempo fa, è toccata pure la pena capitale della croce.
Riecco il bavaglio da Ddl Zan: nel Codice della strada…
Nel Decreto-legge Infrastrutture, già passato alla Camera, è stato inserito un singolare emendamento che vieta sulle strade “qualsiasi forma di pubblicità” ritenuta sessista o violenta anche in relazione all’identità di genere già bocciata insieme al Ddl Zan. Pure i messaggi contro aborto, eutanasia, ecc. sono a rischio censura. Protesta Pro Vita & Famiglia. AGGIORNAMENTO: Con il voto al Senato di oggi (190 sì, 34 no), 4 novembre, il provvedimento è divenuto legge.