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terremoto politico

Caso Almasri, governo ostaggio della magistratura

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Archiviata la posizione della premier, si va verso la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Piantedosi, Nordio e Mantovano. Una vicenda giudiziaria che riaccende le tensioni tra esecutivo, opposizioni e toghe.

Politica 06_08_2025
foto Mauro Scrobogna / LaPresse

È di lunedì la notizia che segna una svolta nel caso giudiziario e politico che ha investito l’esecutivo italiano: il Tribunale dei ministri ha archiviato la posizione del presidente del Consiglio Giorgia Meloni nell’indagine sul caso Almasri, mentre si va verso la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, del ministro della Giustizia Carlo Nordio e del sottosegretario Alfredo Mantovano.
Una decisione che ha immediatamente riacceso le tensioni tra governo, opposizioni e magistratura, rilanciando un caso che, iniziato nel gennaio scorso, ha assunto via via contorni sempre più infuocati, fino a diventare uno dei più significativi e controversi scontri istituzionali della legislatura.

Tutto ha inizio il 6 gennaio scorso, quando il generale libico Nijeem Osama Almasri, capo della polizia giudiziaria libica, intraprende un viaggio in Europa. Dopo essere partito da Tripoli, fa scalo a Roma-Fiumicino e si dirige a Londra, dove si trattiene una settimana. Il 13 gennaio si sposta in treno a Bruxelles, quindi prosegue via auto con un amico fino in Germania. Durante il tragitto verso Monaco, viene fermato per un controllo di routine dalla polizia tedesca, che però lo lascia andare. Infine, raggiunge Torino per assistere a una partita della Juventus. Dodici giorni dopo l’inizio del suo viaggio, la Corte penale internazionale dell’Aia emette un mandato d’arresto contro di lui, accusandolo di crimini di guerra e contro l’umanità commessi nella prigione libica di Mittiga dal febbraio 2011: 34 le persone che sarebbero state uccise sotto il suo comando, un bambino sarebbe stato violentato.

Il 19 gennaio, mentre si trova a Torino, Almasri viene arrestato dalla polizia italiana. Ma l’arresto dura poco: appena due giorni dopo, il 21 gennaio, viene rilasciato su disposizione della Corte d’Appello, che rileva un vizio procedurale. L’arresto, secondo i giudici, è irrituale perché la Corte penale internazionale non aveva ancora trasmesso gli atti al ministro della Giustizia Nordio, rendendo l’azione delle forze dell’ordine priva della necessaria copertura legale. Subito dopo il rilascio, nello stesso giorno, il comandante libico viene imbarcato su un volo di Stato e rimpatriato in Libia, dove viene accolto come un eroe da decine di sostenitori.

È questo il momento che trasforma un caso giudiziario in un terremoto politico: l’opposizione insorge e anche la Corte penale internazionale esprime dure critiche per la mancata consegna di un uomo accusato di crimini gravissimi. Il 23 gennaio il ministro Piantedosi rompe il silenzio del governo, spiegando che il rimpatrio è stato disposto per “urgenti ragioni di sicurezza” attraverso un suo provvedimento di espulsione, motivato dalla pericolosità del soggetto. Il governo, inoltre, sottolinea che l’effettivo mandato di arresto della Corte penale internazionale era arrivato quando Almasri era già in Italia, e che la tempistica e le modalità di trasmissione degli atti non avrebbero consentito una regolare esecuzione del provvedimento. Ma la polemica non si spegne, anzi. Il 28 gennaio, Giorgia Meloni comunica al presidente della Repubblica Sergio Mattarella di essere stata iscritta nel registro degli indagati dalla Procura di Roma, insieme ai ministri Nordio, Piantedosi e al sottosegretario Mantovano, con l’accusa di favoreggiamento e peculato.

La premier affida a un messaggio sui social la sua reazione, definendo «surreale» la decisione e accusando la magistratura di voler colpire politicamente l’esecutivo. L’indagine intanto prosegue, mentre l’opposizione parla di uno scandalo internazionale e chiede le dimissioni dei ministri coinvolti. A fine giugno, la procura della Corte penale internazionale interviene ufficialmente con una memoria durissima: l’Italia, afferma, non ha ottemperato ai propri obblighi e ha ostacolato la giustizia internazionale, impedendo alla Corte di esercitare le sue funzioni. Secondo la procura, il governo italiano avrebbe avuto l’obbligo di consultare la Corte, e la mancata consultazione rappresenta una grave violazione del diritto internazionale.
Il governo Meloni risponde con fermezza: respinge ogni accusa di incoerenza e parla apertamente di una invasione di campo da parte della procura internazionale, sostenendo che l’Italia ha agito nel rispetto delle proprie prerogative sovrane in materia di sicurezza nazionale.

È in questo clima già rovente che arriva in queste ore la decisione del Tribunale dei ministri: nessuna responsabilità penale per la premier Meloni, ma si procede verso la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Piantedosi, Nordio e Mantovano. Una decisione che, lungi dal placare le acque, riaccende la miccia. Giorgia Meloni afferma che ogni decisione presa in materia di rimpatrio del generale libico è stata «concordata» all’interno del governo e che «è quindi assurdo chiedere che vadano a giudizio» tre suoi collaboratori stretti e non anche lei. Denuncia, in modo esplicito, il carattere strumentale dell’intera vicenda, accusando una parte della magistratura di voler destabilizzare l’esecutivo e di creare un caso politico-giudiziario che punta a dividere il governo e a colpire la sua coesione.

Secondo ambienti vicini al governo, l’attacco giudiziario avrebbe anche finalità ideologiche, legate alla posizione dell’esecutivo sul tema dell’immigrazione e alla volontà di ostacolare le politiche di contenimento degli ingressi irregolari. Non a caso, in queste stesse ore, continua lo scontro con l’Associazione nazionale magistrati, che respinge ogni accusa di interferenza politica e difende il lavoro dei magistrati coinvolti nel caso.

Le opposizioni, dal canto loro, insistono sulla necessità di fare chiarezza, chiedono che i ministri coinvolti si autosospendano e accusano la premier di voler politicizzare un’indagine che riguarda fatti oggettivi e documentati. Ma all’interno della maggioranza si fa quadrato intorno ai tre esponenti dell’esecutivo, considerati vittime di una strategia mirata a colpire il cuore delle politiche governative, soprattutto in materia di sicurezza e rapporti con i paesi nordafricani.

La vicenda Almasri, dunque, si conferma una bomba a orologeria, capace di scardinare equilibri istituzionali e politici, e di riaccendere lo scontro ormai sistemico tra politica e magistratura, un duello che negli ultimi anni ha visto sempre più spesso le toghe e i palazzi del potere affrontarsi su un terreno in cui le regole del diritto si confondono con le strategie della comunicazione e della propaganda.

In un’Italia già attraversata da tensioni politiche, sociali e internazionali, il caso del generale libico rappresenta non solo una questione di diritto penale internazionale, ma anche e soprattutto un simbolo della fragilità del rapporto tra giustizia e politica, della difficoltà di trovare un equilibrio tra esigenze di sicurezza, rispetto delle norme e sovranità nazionale, e infine dell’uso crescente, da parte di tutti gli attori in campo, della giustizia come arma di conflitto politico.



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