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Turchia, una diga sui fiumi dei curdi. Per assetarli

La maxi-diga turca realizzata a Ilisu rischia di far morire di sete un pezzo di Iraq. Non uno qualsiasi. Perché in quell'area la popolazione è prevalentemente curda e dunque l'obiettivo appare più che chiaro. In un momento di crisi idrica vuol dire condannare quei territori alla desertificazione.

Esteri 13_06_2018
La diga di Ilisu

La Turchia evidentemente ormai ritiene di essere immune da ogni responsabilità in ambito nazionale e internazionale. Perché se è ben conosciuto il clima di repressione dei diritti civili in patria, per volontà del sultano Erdogan, è forse meno noto ai più quel che Ankara sta facendo all'estero. In Iraq per esempio dove la maxi-diga realizzata a Ilisu rischia di far morire di sete un pezzo di Iraq. Non uno qualsiasi. Perché in quell'area la popolazione è prevalentemente curda e dunque l'obiettivo appare più che chiaro.

La diga infatti, che vanta un'altezza di circa 144 metri, una volta riempita andrà a coprire un'ampiezza di circa trentamila ettari costringendo le popolazioni che lì sono stanziate da decenni a spostarsi, così da andare a stabilirsi nelle città limitrofe. Una prova di forza che Erdogan intende mettere a segno a strettissimo giro di posta con le elezioni di fine giugno che vedono la sua situazione politica e di consenso non proprio ai massimi; l'obiettivo è segnalato palesemente dalla decisione di anticipare a questi giorni le operazioni di riempimento della diga che invece erano previste per la fine di Luglio. Il Sultano e il suo esecutivo puntano con tutta evidenza ad indebolire ancora di più una popolazione già colpita duramente da attacchi militari, massacri, esodi forzati, lotta al terrorismo jihadista.

Togliere acqua al Tigri e all'Eufrate in un momento di crisi idrica senza precedenti significa condannare quei territori ad una desertificazione senza scampo, questo il governo iracheno ha lamentato contro Ankara che però, nonostante prese di posizione di facciata, non indietreggia di un passo. Anche se potrebbe far cadere un popolo intero sotto i colpi della sete durante un'estate torrida e dalla durata ignota. Ancora una volta le mire del Sultano Erdogan, e in questo caso anche le sue impellenti necessità elettorali, la fanno da padrone in un quadrante devastato, senza tregua. Non è bastato infatti al presidente turco lasciar entrare e uscire gli jihadisti e i foreign fighters dell'Isis con destinazione ora Iraq e Siria ora Occidente, non non era ancora abbastanza. Non è bastata Afrin con la sua devastazione, occorreva forzare ancora di più la mano e andare a colpire nel mucchio, ponendo curdi e iracheni davanti allo spettro di un destino imminente atroce, in preda alla sete.

Il Tigri e l'Eufrate hanno poi un valore simbolico non indifferente, con il loro innegabile contributo alla nascita della civiltà globale: impoverirli significa colpire ancora di più di due corsi d'acqua. Ma tanto a Erdogan tutto è concesso, niente è negato e anche se il governo di Baghdad protesta e lancia l'allarme sete nessuno muove un dito. Lui è intoccabile, perché fa paura. Fanno paura alla comunità internazionale le sue minacce di guerra di religione per la chiusura delle moschee in Austria, fanno paura le sue minacce sui migranti. E nessuno dice nulla se a sostenere il Qatar, principale Paese finanziatore e sostenitore del radicalismo jihadista, dopo un anno di embargo sia proprio la Turchia che continua a foraggiare Doha per non farne incrinare l'economia. Silenzi assordanti su Ankara e su Erdogan. Anche adesso che la tornata elettorale alle porte potrebbe segnarne l'inizio del declino.