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L'ANALISI

Trump ha ridato fiducia agli Usa: l'eredità che Biden non può ignorare

Qualsiasi cosa si possa pensare di Trump, solo chi è accecato da pregiudizi ideologici può negare che la presidenza Trump sia stata una tra le più significative nella storia americana del secondo dopoguerra. Ha rassicurato una società disorientata e impaurita limitando gli eccessi del “politicamente corretto” e la “dittatura delle minoranze”, difendendo la famiglia tradizionale e schierandosi su posizioni decisamente pro life

Esteri 22_01_2021

Negli Stati Uniti è cominciata ufficialmente l'era Biden: o sarebbe meglio dire l'era Biden/Harris/Obama/Clinton, visto che si tratta della nuova fase di un blocco di potere progressista ben consolidato da decenni, del quale l'ex-vicepresidente costituisce l'estremo rappresentante, e la Harris una tra i presumibili eredi.

Inizia, soprattutto, l'era post-Trump, e gli Stati Uniti voltano pagina – o almeno ci provano – rispetto a una delle presidenze più conflittuali degli ultimi decenni. Ma voltano pagina molto relativamente, in quanto la transizione tra le due leadership avviene nel segno di una perdurante contrapposizione radicale tra "due Americhe" quale non si era vista da molto tempo: da un lato l'America delle due coste, delle grandi metropoli, delle élites hi tech e cosmopolite, dall'altro tutto il resto dell'Unione, piccola e media impresa, terziario, agricoltura, ceti popolari.

Donald Trump ha perso di misura un'elezione la cui campagna ha avuto toni accesissimi, e i cui risultati sono stati intorbidati dall'enorme pasticcio del voto postale. Ha commesso la fatale leggerezza di continuare a rivendicare la vittoria e a denunciare brogli anche oltre ogni sede di giudizio ufficiale, esasperando la tensione politica a tal punto che un manipolo di suoi sostenitori estremisti ha assaltato il Campidoglio. Ma quell'atto, certo non da lui invocato, è stato immediatamente usato dai suoi avversari come una clava per criminalizzarlo e per tentare di escludere lui e chi lo sostiene da ogni agibilità democratica: dando avvio ad un “bando” senza precedenti da parte dei maggiori social media, che già più volte lo avevano censurato, mostrando evidentemente di parteggiare contro di lui, e hanno letteralmente cancellato tanto lui quanto molti tra i suoi sostenitori, spingendosi addirittura fino ad impedire il funzionamento di altri social, come Parler, che gli consentivano invece ancora libertà di espressione.

Un ostracismo senza precedenti, che ha posto in rilievo brutalmente quanto le aziende “big Tech”, padrone della comunicazione digitale globalizzata in Occidente, costituiscano oggi un vero e proprio “cartello” corporativo dal punto di vista economico, per giunta compattamente schierato in politica da una parte sola, e assolutamente intollerante verso la parte avversa. E ha posto gli Stati Uniti – e il mondo occidentale – davanti alla prospettiva inquietante, già affacciatasi più volte negli ultimi anni, di un'evoluzione della dialettica politica verso regimi che della democrazia liberale conservano soltanto il nome, mentre di fatto vedono la trasformazione dell'informazione in propaganda a senso unico, e aboliscono il pluralismo delle opinioni in favore di verità ufficiali costituite da “veline” ideologizzate sostenute dal blocco socio-economico dominante.

Con queste premesse, non è verosimile che il livello di conflittualità politica accumulato negli Stati Uniti negli ultimi anni ritorni molto presto ad un livello di normalità, né che il mandato presidenziale di Trump sia frettolosamente archiviabile come una parentesi da dimenticare. La rabbia, la frustrazione, il senso di separazione e di abbandono di (almeno) metà del paese rispetto alle dinamiche della globalizzazione e ad un establishment ostile - le cui punte più estreme hanno provocato la tentata insurrezione di Capitol Hill - restano, e chiedono ancora risposte. Quei sentimenti, che per decenni hanno nutrito un'insofferenza sempre più estesa per la classe politica nel suo complesso, avevano trovato in Trump, outsider di lusso rispetto ai due grandi partiti, un portavoce efficace ed energico.

Ma, soprattutto, il magnate newyorchese ha saputo interpretare il suo mandato con intelligenza, inserendo le rivendicazioni anti-establishment dei suoi elettori nell'alveo di un aggiornamento ragionato della politica economica ed estera della tradizione politica repubblicana. Qualsiasi cosa si possa pensare di lui, solo chi è accecato da pregiudizi ideologici può negare che la presidenza Trump sia stata una tra le più significative nella storia americana del secondo dopoguerra.

Trump ha incarnato pienamente la reazione degli Stati Uniti alla curvatura “asiatica” della globalizzazione e alla crescente centralità economica e politica mondiale della Cina: combattendo energicamente la concorrenza sleale cinese con le barriere tariffarie, richiamando molti capitali americani in patria con accordi fiscali, dando un potente impulso alla crescita economica con una politica fiscale molto favorevole alle imprese. Ha dato ascolto alla pressante richiesta di sicurezza dei ceti meno economicamente avvantaggiati contrastando con forza l'immigrazione illegale, ma al contempo conquistandosi simpatie tra gli immigrati stabilizzati e tra le minoranze etniche che hanno beneficiato degli effetti positivi della ripresa,  tanto da cambiare significativamente la geografia elettorale del Grand Old Party, non più percepito come espressione delle élites Wasp.

Ha rassicurato una società disorientata e impaurita limitando, per quanto la cultura egemone glielo ha concesso, gli eccessi del “politicamente corretto” e la “dittatura delle minoranze”, difendendo la famiglia tradizionale e schierandosi su posizioni decisamente pro life. Ha, infine, rimesso radicalmente in discussione la proiezione globalista e interventista della politica estera statunitense, avvalorandosi così come interlocutore più affidabile per molti governi non occidentali, e contribuendo in modo significativo alla stabilizzazione di alcuni contesti conflittuali, a partire da quello mediorientale.

Lascia irrisolto il problema generale della collocazione degli Stati Uniti nel mondo globalizzato segnato dalla coabitazione tra civiltà e dal  pluralismo di potenza, ed in particolare il rapporto tra le due sponde dell'Atlantico, tra Stati Uniti e paesi dell'Asia-Pacifico, tra Stati Uniti e Russia. Ma lascia, comunque, un'America più sicura di sé e fiduciosa nel futuro di quanto avessero saputo costruire le presidenze di Bush jr. e di Obama.

Considerando tutti questi fattori, sarebbe un gravissimo errore per Biden, e per il blocco politico-economico che lo sostiene, pensare di poter giocare il mandato presidenziale che sta cominciando in una chiave di speculare contrapposizione all'eredità trumpiana, o addirittura di damnatio memoriae nei confronti di essa. I problemi sottolineati dall'emergere del trumpismo, e il segno da lui lasciato nella storia americana, sono ben lungi dall'essere esauriti. Se vuole evitare che la sua presidenza si avviti precocemente in una spirale di crescente e irresolubile conflittualità, Biden farebbe bene a raccogliere almeno qualche elemento di quella eredità, ed in particolare a cercare di comprendere le ragioni profonde dell'America non elitaria, quella compresa tra le due coste, quella che Hillary Clinton bollò come un “bunch of deplorables”. Farebbe bene - se ne avrà la forza e la lucidità - a non dare spazio alle frange radicali del suo partito, agli entusiasti di un globalismo acritico che oggi significa solo acquiescenza al dominio cinese, agli artefici di un nuovo statalismo con pretesti ambientalisti. Farebbe bene a non assecondare le smanie monopolistiche di Silicon Valley e quelle censorie della cancel culture. Le conseguenze di una sua sottovalutazione della delicatezza del contesto in cui la storia lo ha messo in condizione di operare potrebbero essere fatali per la pace sociale degli Stati Uniti, la sopravvivenza delle loro istituzioni, e gli equilibri dell'intero Occidente.