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STATI UNITI

Trump contro la Fed, scontro sul futuro del dollaro

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Gli Stati Uniti sono in crisi nera e la Fed, la banca centrale, è parte del problema. Trump ha almeno il merito di guardare in faccia la realtà e cerca di porvi rimedio con cure radicali. Anche se il suo tentativo di prendere il controllo della Fed per sostenere la crescita potrebbe essere controproducente.

Economia 10_09_2025
Donald Trump con Jerome Powell, presidente della Fed (ImagoEconomica)

Donald Trump ha aperto un nuovo fronte di guerra: la Federal Reserve. Con il suo stile assai poco diplomatico, il Presidente Usa sembra pronto a sfidare l’istituzione che, da oltre un secolo, regola la politica monetaria statunitense. È solo una divergenza di vedute sulla corretta gestione della crisi economica/finanziaria oppure è l’inizio di una lotta contro l’élite finanziaria di Wall Street?

Gli Stati Uniti arrancano sotto un debito pubblico federale monstre di oltre 37mila miliardi di dollari, che cresce di 2mila miliardi l’anno, con un disavanzo commerciale di pari entità. L’economia reale è in affanno, con l’industria manifatturiera in declino pluridecennale e un dollaro che regge solo grazie al suo status di valuta di riserva globale. Eppure la Borsa rimane sui massimi storici, gonfiata da anni di liquidità facile, uno scollamento dalla realtà davvero inquietante. Con le elezioni di midterm del novembre 2026 alle porte – che prevedono il rinnovo completo della Camera e di un terzo del Senato, entrambi al momento a maggioranza repubblicana –, è evidente che Trump deve affrettarsi a mettere i conti in ordine e a fornire segnali convincenti di ripresa dell’economia reale, e non solo di quella finanziaria. E tale strategia passa anche da un controllo più stretto della banca centrale.

Trump vuole ridurre drasticamente i tassi per rilanciare la crescita economica e ridurre il peso del debito. I pericoli sono molti, in particolare un’ulteriore accelerazione delle dinamiche inflazionistiche, già stimolate dai dazi sulle importazioni che fanno salire i prezzi di materie prime e prodotti finiti per le industrie importatrici e i consumatori statunitensi. Il risultato finale, come spesso capita nelle decisioni politiche, potrebbe essere quindi l’opposto di quello desiderato: il rialzo dell’inflazione, infatti, spingerebbe i rendimenti a lungo termine – a partire dai Treasury decennali, i titoli del debito pubblico, che ora rendono attorno al 4% – su valori ancora più elevati. Abbassare i tassi a breve, quindi, potrebbe avere l’effetto indesiderato di far salire proprio i tassi a lungo, rendendo così ancora più critica la rinegoziazione del debito pubblico che ogni anno richiede il rinnovo di migliaia di miliardi di dollari di titoli in scadenza, oltre al finanziamento dei 2mila miliardi di nuovo deficit che si aggiunge al debito ogni anno.

La Fed, istituita nel lontano 1913, ha come mandato principale la stabilità dei prezzi e la massima occupazione, ma sopraintende anche alla stabilità generale del sistema finanziario. Non si limita a fissare i tassi di interesse a breve ma può anche manipolare al ribasso i rendimenti a lungo attraverso l’acquisto di Treasury con liquidità generata ex nihilo, con un click del mouse. Si tratta delle note operazioni di easing quantitativo, che hanno mantenuto i tassi di interesse artificialmente bassi per un decennio, a partire dalla Grande Crisi Finanziaria del 2008. Una vera e propria politica di repressione finanziaria che ha creato dinamiche inflazionistiche, prima gonfiando i mercati finanziari e l’immobiliare, poi abbattendosi sul potere d’acquisto dei redditi fissi, prevalentemente salari e stipendi. Politiche assai poco ortodosse, che hanno incoraggiato l’indebitamento e la speculazione, ad esclusivo beneficio dell’industria finanziaria e dei più abbienti, danneggiando però la classe media. Il rischio della scorciatoia monetaria di Trump è che, dopo un primo effetto che potrebbe anche risultare positivo, porti poi in un burrone. Da cui si sarebbe costretti ad uscire con nuove politiche di easing quantitativo, la solita repressione finanziaria che abbiamo conosciuto negli anni passati. Insomma, il circolo vizioso non si interromperebbe, anzi.

Al momento è impossibile capire se Trump abbia in mente di rivedere radicalmente le logiche di funzionamento della banca centrale. Probabilmente non ha la forza di resettare la Fed; è più verosimile che voglia semplicemente assumere un controllo più diretto della politica monetaria, in modo da giocare di sponda con quella fiscale. Non a caso ha deciso di nominare nel board della Fed il fidatissimo Stephen Miran, Presidente del Consiglio dei consulenti economici, molto vicino anche al Segretario del Tesoro, Scott Bessent. Miran è autore di un report importante e molto noto, nel quale vengono definite le linee guida della svolta trumpiana sull’economia, a partire dalla politica aggressiva sui dazi per il riequilibrio del disavanzo commerciale e la rinascita manifatturiera negli Usa. Con la rimozione di Lisa D. Cook, accusata di frode ipotecaria e membro del consiglio dei governatori della Fed dal 2022 su nomina di Biden, Trump ha dimostrato che ottenere il controllo della Fed è diventato il suo prossimo obiettivo di scontro con il deep State. Miran potrebbe diventare il prossimo governatore della Fed dopo Powell? Se così fosse, si creerebbe un tandem senza precedenti tra la Fed e il Tesoro guidato da Bessent.

La Fed è sempre stata considerata “indipendente” e gli economisti gridano all’attacco a tale indipendenza. Ma indipendenza da chi? Dai cittadini? Dal Congresso? O semplicemente dal controllo democratico? Le sue 12 banche regionali sono partecipate da istituti privati, e i suoi vertici sono nominati dal Presidente, ma operano con una discrezionalità che spesso sembra più vicina a Wall Street che a Main Street. Non stupisce quindi il pieno appoggio a Powell dei più grandi banchieri, come Jamie Dimon, Presidente e CEO di JPMorgan Chase. È uno scontro che viene da lontano: già nel maggio 2015, durante un comizio in Michigan, Trump aveva dichiarato: «La Fed lavora per Wall Street, non per gli americani. Io voglio una Fed che serva Main Street». Ora, il Presidente sembra deciso a passare dalle parole ai fatti.

Mentre i media parlano di “svolta autoritaria”, la domanda più importante è un’altra: l’indipendenza della Fed finora ha davvero servito il popolo americano? Oppure ha protetto gli interessi di chi specula, investe e incassa dividendi? La banca centrale crea dal nulla denaro a debito, ad libitum, e il sistema delle banche commerciali che lavorano a riserva frazionaria lo “moltiplica” a dismisura. La domanda più radicale dovrebbe quindi essere un’altra: tale sistema è davvero funzionale a un’economia libera? Un’economia sana non dovrebbe basarsi su denaro vero anziché su denaro fiat? Giudicando dai risultati ottenuti dalla Fed, i dubbi che il sistema serva davvero gli interessi della libertà economica e del popolo americano sono più che legittimi: da quando è stata istituita, il potere di acquisto del dollaro, infatti, è sempre diminuito, come risulta evidente dalla speculare dinamica dell’oro, che continua a registrare nuovi massimi storici e quota oramai oltre 100 volte tanto il rapporto di cambio che era stato fissato a Bretton Woods nel 1944 (35$/oncia). Attenzione: non è l’oro che sia salito, perché il suo potere d’acquisto, misurato contro beni reali, rimane abbastanza stabile nel corso del tempo. È il dollaro, invece, che è sceso e continua a perdere potere di acquisto, in accelerazione. E la causa sono proprio i processi inflazionistici creati dalla Fed e dal sistema bancario. Se Trump vuole controllare la Fed, i critici più radicali, infatti, vorrebbero addirittura eliminarla: end the Fed, così si risolverebbe il dilemma dell’indipendenza o del controllo politico alla radice. Ma per questo, purtroppo, i tempi non sono maturi.

Al di là di quanto avverrà, possiamo essere certi che la via maestra non è la politica monetaria. Occorrerebbe piuttosto proseguire con il taglio della spesa pubblica, lavoro che aveva iniziato a fare Elon Musk al Department of Government Efficiency (Doge), ripreso poi da Russell Vought, Direttore dell’Ufficio per la gestione e il bilancio degli Stati Uniti. Ma non se ne parla più molto, segno che si è compreso che la spesa pubblica è difficilmente aggredibile, per molti motivi tra cui infiniti veti incrociati, e che l’obiettivo iniziale di tagliarla addirittura di 2mila miliardi di dollari all’anno, per riportare il bilancio federale in pareggio, era del tutto irrealistico, come si può vedere consultando lo stato avanzamento lavori del Doge.

Quale piega prenderanno gli eventi? Difficile dirlo. Trump vuole traghettare gli Stati Uniti fuori dalla grave crisi che stanno attraversando e dal rischio che vada fuori controllo. Un pericolo non adeguatamente percepito dalla maggioranza degli osservatori, probabilmente distratti dal buon andamento dei mercati azionari, che si trovano così spiazzati dalle mosse aggressive di Trump, attribuendole alla sua umoralità, alla sua inesperienza o, addirittura, alla sua follia. Le cose non stanno però in questi termini: anche se le soluzioni avanzate da Trump sono assai discutibili, e potrebbero addirittura ottenere risultanti opposti a quelli desiderati, gli va comunque riconosciuto il merito di sapere guardare in faccia la realtà e di cercare di invertire rotta bruscamente per evitare che il transatlantico Usa vada a schiantarsi contro un iceberg.

In un mondo che sta transitando verso un multipolarismo caotico la supremazia americana non è più scontata. Il Presidente sa che il tempo delle mezze misure è finito. Riuscirà a piegare la Fed senza scatenare un terremoto finanziario? La risposta arriverà presto, e il mondo sta guardando.