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FINANZA VERDE

Silurare Toyoda e l'auto ibrida: è il più puro che epura

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Il signor Akio Toyoda, presidente della Toyota, potrebbe non sopravvivere alla prossima assemblea degli azionisti. I grandi investitori lo hanno preso di mira solo perché si oppone all'imposizione dell'auto elettrica, come unico modello di trasporto. Era il più ecologista, oggi è considerato troppo conservatore.

- LA FINANZA NON SI OCCUPI DI CLIMA di M. Giaccio

Economia 07_06_2023
Prius, lavaggio casalingo

Il signor Akio Toyoda, presidente della Toyota, potrebbe non sopravvivere alla prossima assemblea degli azionisti della sua stessa azienda, che si terrà il 14 giugno. A votargli contro sono stati i grandi investitori, come i fondi pensione degli impiegati pubblici dello Stato di New York e di quelli della California. A schierarsi per la sua estromissione, soprattutto, è una delle due più grandi società di consulenza al mondo, la Glass Lewis, che ha la fama di orientare i “suoi” azionisti facendo passare tutte le delibere che appoggia, in ogni assemblea, grandi o piccole che siano le aziende.  

Come mai degli investitori americani hanno preso di mira un grande imprenditore giapponese, se non per rivalità personale o economica? La questione è molto più grave, perché la ragione della campagna anti-Toyoda è politica. O più precisamente: è ideologica e ambientalista, come rileva un’analisi del Wall Street Journal di questa settimana. Non si capirebbe perché sia preso di mira proprio l’azienda giapponese che, nei primi anni Duemila, era diventata il simbolo dei liberal ambientalisti, con la prima auto ibrida di grande diffusione, la Prius. Dove si vedevano le Prius, soprattutto in California, si poteva star certi che alla sua guida c’era un elettore di Obama e un fautore della rivoluzione dei "Green Jobs". Ma il tempo passa e le auto ibride stanno diventando quasi quel che un tempo, dieci anni fa, erano i Dodge o i Suv a benzina, i “naftoni”, insomma, più sporchi e conservatori. Adesso il dogma è il motore elettrico. Toyoda ha opposto un po’ di sano pragmatismo alle soluzioni full electric, adottate addirittura a livello nazionale dagli Usa e nell’Ue, affermando (perorando i suoi interessi, sicuramente) che è sbagliato concentrarsi su una sola tecnologia per combattere il cambiamento climatico. E tanto basta per chiedere la sua testa. È di nuovo verificata la teoria che c'è sempre il più puro che ti epura.

A nulla paiono valere le promesse, scritte, di rendere tutti i veicoli della Toyota “carbon neutral” entro il 2050. I grandi investitori non ammettono di agire con uno scopo politico-ideologico: si oppongono alla rielezione di Akio Toyoda sostenendo che ci sono problemi di governance aziendale, che il consiglio di amministrazione non è sufficientemente indipendente dalla direzione. Ma si tratta di questioni non nuove. La ragione è politica, come dimostrano le polemiche pubbliche sulle prese di posizione dell’imprenditore giapponese e le azioni politiche di lobbying della sua azienda. Negli anni dell’amministrazione Trump, ad esempio, ha avuto la “colpa grave” di schierarsi al fianco del presidente contro la legislazione californiana sull’ambiente eccessivamente restrittiva.

In aprile, soprattutto, in una memoria interna destinata ai suoi rivenditori americani, la Toyota aveva pubblicato un po’ di statistiche interessanti, che riguardano anche il nostro futuro prossimo in Europa. “La maggior parte dei carica-batterie pubblici può impiegare dalle 8 alle 30 ore per ricaricarsi. Per raggiungere gli obiettivi federali di vendita di [veicoli a emissioni zero], sono necessari 1,2 milioni di caricatori pubblici entro il 2030. Ciò equivale a circa 400 nuovi caricatori al giorno”. Un ritmo di installazioni che nella realtà non è neppure plausibile. Ma a monte, per produrre le batterie necessarie a una trasformazione del parco auto, da combustione interna a elettrico, non ci sarebbe letteralmente abbastanza materiale a disposizione. “Per soddisfare la domanda di batterie prevista entro il 2035, sono necessarie più di 300 nuove miniere di litio, cobalto, nichel e grafite, il cui sviluppo potrebbe richiedere decenni”. E con un impatto ambientale che si può solo immaginare, considerando che sono 300 miniere da scavare e da sfruttare.

Chiaramente il signor Toyoda sta tirando l’acqua al suo mulino, ma la causa che sta perorando è universale: si tratta di difendere la competizione fra varie tecnologie dal dirigismo di vuole imporre un unico modello industriale nel nome di un’ideologia. La macchina a vapore, fra il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo, non è stata imposta per legge a tutti, vietando il vento e la trazione animale. L’auto con motore a scoppio non è frutto di un piano industriale dettato dai governi nei primi anni del Novecento, vietando carri e carrozze. Quando una macchina prevale sulle altre è perché soddisfa più delle concorrenti le esigenze del maggior numero di persone, ma nessuno, all’inizio, può prevedere che vinca. Il processo che sia l’Ue che gli Usa (con l’amministrazione Biden) stanno avviando è l’opposto: si cerca di prendere una tecnologia ancora minoritaria e imporla alla maggioranza, anzi alla totalità della popolazione, perché a priori è ritenuta conforme alla politica climatica. Che possa soddisfare o meno le esigenze del pubblico, è dunque l’ultimo dei pensieri dei nuovi pianificatori. Probabilmente, però, il bagno di realtà, se i calcoli della Toyota sono giusti, sarà raggelante. E silurare un imprenditore politicamente scorretto non servirà a salvarci.