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INTERVISTA/GIOVANNI TURCO

«Rischiamo il collasso sociale e un nuovo totalitarismo»

«Il blocco totale davanti a una epidemia e la sospensione delle libertà costituzionali in un clima unanimistico, sono senza precedenti nella storia. Lo stato di emergenza può facilmente portare verso un totalitarismo postmoderno». «La Chiesa, guidata da una teologia secolarizzata, si trova a non avere nulla da dire proprio quando ci sarebbe bisogno della sua sapienza. E si è passati dalla salvezza eterna alla salvezza sanitaria». Parla il professor Giovanni Turco, filosofo della politica e del diritto.
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Attualità 19_04_2020
Giovanni Turco

Per capire la situazione creatasi con l’attuale epidemia bisogna certamente entrare nei particolare di disposizioni e ordinanze, ma anche assumere uno sguardo di ampia portata che ci permetta di vedere l’insieme di quanto sta accadendo. Altrimenti si rischia di perdere la rotta e venire deviati passo dopo passo. Con questo scopo abbiamo posto alcune domande al professor Giovanni Turco, filosofo della politica e del diritto di fama internazionale, docente all’Università di Udine.

Secondo alcuni osservatori, il blocco delle attività produttive è stata una misura eccessiva. Tanto più che, con ogni probabilità, bisognerà farle ripartire senza che la situazione epidemica sia sotto controllo.
Le misure adottate, non solo in Italia, mi sembra possano definirsi come un blocco della vita sociale, e non soltanto come un blocco delle attività produttive. Esse hanno stabilito, non semplicemente la cessazione forzata di buona parte della produzione, del commercio e dei servizi, ma hanno imposto alla gran parte della popolazione la segregazione forzata presso il proprio domicilio o addirittura nell’ambito del comune nel quale ci si è trovati al momento dell’entrata in vigore dei provvedimenti, salvo eccezioni fissate minuziosamente dalle stesse norme. Tali misure hanno imposto divieti che potrebbero essere tipizzati come il “divieto di incontro”, anche tra congiunti all’interno dello stesso comune, il “divieto di deambulazione” nelle strade, il “divieto di fare acquisti alimentari presso un rivenditore diverso da quello ubicato il più possibile vicino alla propria abitazione”. A riguardo c’è chi è giunto a parlare di “arresti domiciliari” generalizzati. A riguardo stupiscono, o meglio inducono ad interrogarsi, almeno tre elementi fattuali. Il primo: tali provvedimenti hanno un carattere obiettivamente inedito. Mai nella storia il sopraggiungere delle epidemie aveva portato a misure tanto massivamente segregazioniste, imposte dai poteri costituiti. Anche se le risorse sanitarie nei decenni e nei secoli passati erano di gran lunga meno efficaci di quanto non lo siano quelle attuali. Anche di fronte alle catastrofi e alle guerre, la vita sociale non era mai stata paralizzata per decreto. Continuava, come poteva. Anzi era considerato – giustamente – apprezzabile non abbandonare la propria attività (religiosa, professionale, produttiva …).
Secondo elemento: tali provvedimenti di segregazione sociale sono stati imposti, di fatto, in un clima pressoché unanimistico, nel quale è stato in discussione solo il “come”, ma mai il “che cosa”. In fondo, l’unica variante nel dibattito non ha riguardato la possibilità, ma solo la quantità del segregazionismo. La risposta segregazionista è stata assunta come un dogma (laicissimo, ovviamente), posto per lo più fuori discussione. Almeno nel dibattito politico.
Terzo elemento: tutta una serie di garanzie delle libertà individuali, date per acquisite in quanto indicate come tutelate dalla gerarchia delle fonti normative, è stata sospesa con grande facilità. Non modificando la Costituzione, neppure mediante una legge ordinaria, ma semplicemente (almeno in esordio) mediante atti del governo. Ed è singolare che anche su questo punto non si sia registrato alcun dibattito di rilievo, né dottrinale, né politico, se si eccettuano singole voci dissenzienti.             

Ritardi, disfunzioni e miopie del governo centrale sono sotto gli occhi di tutti, eppure molti premono per un ritorno della sanità in capo allo Stato. Lei vede pericolo di nuovi accentramenti?
L’unità del potere sovrano è uno dei presupposti dello Stato moderno (a partire principalmente dalla teoria di Hobbes). Da esso deriva l’unità dell’ordinamento e dell’organizzazione. Il centralismo burocratico-amministrativo ne costituisce una conseguenza. Da qui l’impostazione tipica dello Stato napoleonico (derivato dalla Rivoluzione francese), adottata in origine dallo Stato italiano. Questo modello, basato su presupposti chiaramente ideologici, ha dimostrato di non reggere alla prova dell’esperienza. Né poteva essere altrimenti. Rispetto ad esso, però, il decentramento, che trasferisce funzioni da svolgere ad enti subordinati (rispetto al centro del potere), ma secondo criteri fissati aprioristicamente dallo Stato, è piuttosto una variante che una alternativa. Piuttosto l’alternativa starebbe nella riscoperta del principio di sussidiarietà, quindi nella restituzione di autentiche autonomie ai corpi sociali (locali, professionali e volontari). Un discorso analogo – mutatis mutandis – riguarda anche l’organizzazione della sanità. Tornare allo statalismo, significherebbe riproporre un modello ideologico in crisi dappertutto (come non poteva non essere) e significherebbe negare la stessa lezione dell’esperienza. Per non parlare dell’elefantiasi burocratica, richiesta dall’accentramento, e dall’ammontare dei suoi costi.     

Nell’incertezza e nella paura possono nascere nuovi autoritarismi, dei quali anche in Italia ci sono ormai molti esempi consolidatisi in questi tempi di emergenza: in che misura lei vede la possibilità di un nuovo “decisionismo pianificato”?
Si sa che facendo leva sulla paura, si può imporre anche l’inimmaginabile. Invocando l’emergenza, si possono introdurre leggi che altrimenti incontrerebbero resistenze tenaci. Presentandosi come “salvatori della patria”, si possono decretare norme capaci di immunizzare il potere da qualsivoglia obiezione. L’esempio della Rivoluzione francese è emblematico. Dichiarando la patria in pericolo, si giustificò il massacro dei preti refrattari (quelli che non avevano giurato la costituzione civile del clero) e dei detenuti nelle carceri (in gran parte tali arbitrariamente e per lo più sulla base di sospetti). In realtà, ad essere in pericolo non era la patria, ma la Rivoluzione. Gli avversari della Rivoluzione vengono presentati come nemici della patria. Così giustificando il loro sterminio. Almeno negli ultimi due secoli, le emergenze, fittizie o reali che fossero, sono state l’occasione per imporre cambiamenti rivoluzionari permanenti. Gli esempi storici potrebbero moltiplicarsi. Le emergenze, reali o fittizie che siano, costituiscono un’occasione propizia per estendere il controllo sociale, ed imporre mutamenti radicali nella vita di intere popolazioni. Questo è un dato. Ora, come in altre occasioni, i rischi sono “dietro l’angolo”. Chiunque guardi lucidamente alla situazione attuale se ne avvede. Ed i pericoli derivanti da scenari possibili, a mio avviso, non sono di derive autoritarie, ma molto di più. A ben vedere, si tratta di rischi di “totalitarismo postmoderno”. Sia detto, ovviamente senza alcuna pretesa predittiva, e senza alcuna presunzione di lettura delle intenzioni di chicchessia. Ma solo in via ipotetica. Quanto meno il rischio è che si instauri un regime autorizzativo generalizzato, come, ad esempio, quello che prevede la possibilità di uscire solo per alcune ragioni e non per altre, di raggiungere alcuni luoghi e non altri, di incontrare alcune persone e non altre, oppure solo a condizione di accettare un’applicazione sul proprio telefono cellulare, in grado di tracciare tutti i percorsi fatti, e così via.

D’accordo sulle attenzioni a nuovi autoritarismi e centralismi interessati e pianificati, ma anche la nostra democrazia ha dato e sta dando un cattivo esempio di sé, incapace di fare un minimo esame di coscienza . Non è d’accordo?
Un noto teorico del diritto (e della democrazia), Hans Kelsen, ha scritto che la democrazia è un regime politico “senza padri” e che essa comporta necessariamente il relativismo. Un pensatore americano, Richard Rorty, ha affermato di preferire la democrazia alla filosofia, giacché la filosofia resta comunque ancorata alla ricerca della verità, mentre la democrazia ne prescinde. Ovviamente, mi riferisco alla democrazia moderna. Non alla politeia illustrata da Aristotele. Di fronte alle emergenze (più o meno pesanti) si profila la necessità della competenza e della capacità di assumere decisioni gravi ed urgenti (eventualmente non gratificanti sotto il profilo elettorale). Solo per segnalare alcune esigenze, che in fondo le democrazie affrontano, paradossalmente, sospendendo elementi di democrazia ed introducendo elementi allogeni (che potrebbero far pensare, volta a volta, o all’oligarchia o all’aristocrazia). Si tratta di un problema permanente. Anche in questo caso, l’esperienza dovrebbe suggerire la necessità di una riflessione approfondita, di una ricerca ampia ed articolata, in vari campi di studio. Di cui si avverte, invece, la mancanza.   

La teologia contemporanea ha formulato il criterio dei “segni dei tempi”. Però questo “segno dei tempi” rappresentato dall’epidemia in corso non viene adeguatamente interpretato dalla Chiesa, oppure lo è ma solo in senso umanistico e orizzontale, come solidarietà, speranza nella scienza, esigenza di collaborare tra noi e con le autorità … Non le sembra che manchi l’uso pieno della sapienza cristiana nella lettura di quanto sta accadendo, sapienza che ha la propria sostanza nella prospettiva della perdizione e della salvezza?
Di fronte alle catastrofi, alle epidemie ed alle guerre, da sempre, la voce della Chiesa, segnatamente quella dei santi, è stata chiarissima. Ha fatto appello alla conversione, individuale e delle comunità (nel loro insieme). Ha chiesto penitenza e preghiera. La ragione filosofica e teologica è evidente. I grandi pensatori cristiani vi hanno dedicato opere fondamentali. In questa prospettiva è chiaro che tutto ciò che accade, particolarmente ciò che va al di là delle forze umane o che le sovrasta per i suoi effetti, non può essere indifferente alla volontà di Dio, tanto rispetto alla volontà positiva quanto rispetto alla volontà permissiva. Ritenere Dio estraneo al corso della natura e della storia, significherebbe aderire al naturalismo, o meglio al deismo, ed in fondo all’ateismo.
Diversamente, ciò che qualunque osservatore attento ha potuto notare in questi mesi è la pressoché totale assenza, da parte della gerarchia ecclesiastica, di appelli istituzionali alla conversione, alla penitenza ed alla preghiera. A suo modo, è eloquente il fatto che, da un presenzialismo ecclesiastico spesso concentrato su temi ideologici (come quelli ecologistici o immigrazionistici), si è passati all’afasia.
Mi riferisco qui prevalentemente alle voci “istituzionali”, facendo salve tutte le diverse eccezioni. Proprio allorché ci sarebbe stato da pronunciare parole sapidamente teologali, è calato il silenzio. Una teologia secolarizzata, erede del modernismo, del trascendentalismo e del progressismo, non aveva più nulla da dire. Anzi, nulla, coerentemente, poteva dire. Al silenzio è poi seguito un grumo di appelli “religiosi”, comunque riguardanti esigenze temporali. Assenti i richiami alla prospettiva soprannaturale. Non sono mancati appelli alla cooperazione collettiva, non perdendo occasione per indicare l’unità del genere umano, come orizzonte e come termine delle varie iniziative. Si è passati dalla salvezza eterna alla salvezza sanitaria. Alla salvezza dalla perdizione si è sostituita la salvezza dal virus. In questo senso non ci si salverebbe “da soli”, in quanto si avrebbe bisogno dell’aiuto di altri, appunto per scampare al contagio e ai suoi effetti. La stessa interdizione della messa ai fedeli, è questione estremamente significativa.
I motivi della profilassi sono stati fatti prevalere – da chi ha avuto la responsabilità di questa decisione – rispetto a quelli del dovere del culto pubblico e della necessità morale dei sacramenti. In qualche caso, fino a proibire positivamente ai sacerdoti di celebrare la messa nei monasteri (per le religiose che vi abitano). Ritenendo, così, “responsabile” astenersi dal culto pubblico, piuttosto che il contrario. Con la conseguenza, però, di dovere dichiarare “irresponsabili” schiere di santi e generazioni di religiosi, che al contrario – nei secoli – mai hanno lasciato senza sacramenti i contagiati dalle epidemie più virulente. La serrata del culto e dei sacramenti ha qualche cosa di totalmente inedito in duemila anni di storia del Cristianesimo. Gli storici di domani avranno di che interrogarsi. A maggior ragione, se qualcuno cercherà di formulare un giudizio informato a categorie verticali.                   

Evitando ogni forma di indebita dietrologia ideologica, vorrei chiederle se secondo lei la cosa può, se non prodotta, quantomeno essere adoperata e sfruttata da forze politiche ed economiche per qualche nuovo ordine.
Non entro deliberatamente nel campo delle ipotesi sulle origini del virus. Non perché non abbiano interesse, ma perché – allo stato delle conoscenze, almeno per quanto ne sappia – restano ipotesi. In merito a possibili scenari futuri o in fieri, va detto che questi riguardano, piuttosto che la diffusione del virus (nei suoi aspetti clinici e terapeutici), gli orizzonti verso i quali potrebbero condurre i provvedimenti assunti in nome del contrasto all’epidemia. Riflettendo sotto un profilo puramente congetturale, si può ritenere che, se non vi sarà un rapido ritorno al corso ordinario della vita sociale – almeno nella misura in cui lo era fino a febbraio scorso – si profilano, come particolarmente preoccupanti, almeno due scenari, che lungi dall’escludersi potrebbero intrecciarsi. Da una parte, se il blocco della vita sociale perdura si apre la strada al collasso sociale. Con esiti di frantumazione dei legami civili, di conflittualità generalizzata e di impoverimento diffuso. Dall’altra, potrebbero registrarsi forme di controllo sociale sempre più pervasivo, attuate attraverso l’introduzione di un sistema di tipo autorizzativo, tale da toccare i più intimi aspetti della vita umana. Il tutto, in presenza di situazioni di grave penuria di cui soffrirebbero intere categorie, rimaste senza lavoro, con l’introduzione di forme di dipendenza sempre più forte da iniziative esterne (statali o non). L’intreccio dei due scenari darebbe luogo ad una “fluidificazione” sociale, che potrebbe concludersi in una sorta di “caos istituzionalizzato” o, se si vuole, di “disordine organizzato”. Se questo scenario può apparire solo un futuribile distopico, comunque si può rilevare che lasciano perplessi, anzi inducono serie preoccupazioni, ipotesi come quelle di introdurre regimi di segregazione anche all’interno dei nuclei di familiari conviventi, o di ripresa della possibilità di svolgere attività lavorative condizionata all’esito di esami clinici (s’intende, sul presupposto di motivazioni sanitarie …). A riguardo, potrebbe sovvenire un’analogia di carattere storico: come al tempo della Rivoluzione in Francia per potere circolare liberamente era necessario avere con sé il “certificato di civismo”, ai nostri giorni si potrebbe giungere a potere circolare liberamente, solo potendo contare sull’autorizzazione fissata da un “attestato sanitario” normativamente vincolante. Solo uno sguardo superficiale può illudersi che domani sarà più o meno uguale a ieri. Ciascuno in quanto soggetto razionale, capace quindi di deliberazioni razionali, particolarmente chi ha rilevanti responsabilità sociali, dovrebbe non lasciarsi travolgere dall’immediatezza delle urgenze (pur ovviamente avendo cura di quanto richiedono) o dall’incombere dell’emotività. Per conservare lucidità di mente e decidere prudentemente, per il bene comune.