Regionali in Veneto: timido intervento dei vescovi
In vista delle prossimi elezioni, i vescovi del Veneto hanno pubblicato un comunicato piuttosto generico, senza caratterizzazioni religiose o morali forti.
In occasione delle prossime elezioni regionali in Veneto, i vescovi della regione hanno emesso un comunicato di invito al voto considerato un dovere, di analisi di alcuni problemi sul tappeto della politica regionale e di elenco di alcuni principi orientativi. Si tratta di un testo piuttosto generico, come si usa fare oggi, senza caratterizzazioni religiose o morali forti, in modo da disturbare (e dividere) il meno possibile e in sintonia con un certo sentire diffuso.
In sintesi, i vescovi chiedono «uno sviluppo integrale, sostenibile e inclusivo della nostra Regione». I tre termini adoperati da un lato sono oggi concettualmente molto ambigui, dall’altro (e non sembri una contraddizione) sono aperti a tutte le principali istanze della cultura liberal. La sostenibilità richiama le istanze dell’ideologia ambientalista dominante da cui i vescovi non si differenziano né cercano di smarcarsi. L’inclusività indica l’apertura all’immigrazione e ai cosiddetti “nuovi diritti”. L’integralità forse vorrebbe indicare il principio “tutti gli uomini e tutto l’uomo”, quindi anche l’aspetto spirituale e religioso, di cui però nel documento non si fa parola. In altri termini, un programma di «sviluppo integrale, sostenibile e inclusivo» non aveva certo bisogno di essere indicato da dei vescovi.
Anche l’insistenza sul voto come dovere è problematica. I vescovi mettono al primo posto delle loro esigenze etiche la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale. Ciò dovrebbe comportare che se nessun partito difendesse questo principio dovrebbe cadere l’obbligo morale di votare. La partecipazione non è un dovere in sé, ma relativamente alla bontà e alla giustizia dei contenuti politici che con essa si supportano. C’è dunque la solita retorica della partecipazione.
Quando poi i vescovi fanno un elenco di principi regolativi finiscono per mettere sullo stesso piano la difesa della vita e le politiche contro l’abbandono delle aree interne, soprattutto montane. Accade così anche questa volta, sicché nasce l’impressione che il riferimento alla difesa della vita sia messo lì per dovere istituzionale ma senza convinzione, dato che non funge né da principio non negoziabile né da luce per illuminare gli altri argomenti, ai quali invece viene parificato.
Questi documenti nascono male, si fanno per obbligo, non ci si crede più di tanto, sono frutto di un compromesso tra le opinioni dei vescovi che non sono uniformi, si appiattiscono su un minimo sindacale che non faccia male a nessuno e soprattutto che non divida la comunità cristiana. Ben sapendo che alla fine pochissimi lo leggeranno se non qualche pignolo giornalista.
Stefano Fontana

