Quella che viviamo è "l'ora degli orchi"
A proposito di un Occidente e di cattolici che davanti alle guerre si scoprono tifosi dell'una o dell'altra parte: non solo c'è rifiuto di vedere la complessità e la drammaticità della situazione, ma è anche mancanza di carità e compassione verso le popolazioni che subiscono le conseguenze della guerra.

Caro direttore
Il tuo editoriale del 20 giugno scorso “Israele-Iran, una guerra che prepara altre tragedie” è stato un richiamo forte e originale alla pace ma, ancor più, a quella Verità che è la “forza della pace” (San Giovanni Paolo II). Giustamente hai rilevato la divisione in tifoserie, anche tra i cattolici, e con questo il rifiuto di comprendere la complessità e l’estrema drammaticità della situazione.
La tua voce si è distinta dalla gran maggioranza di giornalisti e commentatori alcuni dei quali, dopo aver criticato per decenni gli Stati Uniti guerrafondai ora vedono con un certo favore l’uso della forza da parte di Donald Trump e per due motivi: il primo è che Trump rientra nella propria “squadra”; il secondo è che il POTUS fa bombardare l’Iran perché vuole la pace. Da qui a mettersi nei panni degli iraniani che vedono colpite non solo le basi militari ma anche le città c’è molta distanza: una distanza che può essere colmata da quella Carità e compassione che è propria dei cristiani ma non di tutti coloro che si professano cattolici. Ricordo infatti che, nel 1938, Mussolini, mentre promulgava le leggi razziali, si professava cattolico ma non cristiano: un esempio su cui tutti dovremmo meditare.
Giustamente hai richiamato le parole dei pontefici a fronte dei rischi gravissimi di azioni militari sempre più diffuse e distruttive e, sempre giustamente, rilevi come «la storia è piena di guerre lampo trasformatesi in lunghi e sanguinosi conflitti». Per cui l’appello alla pace dei pontefici non è un vaniloquio moralistico ma un giudizio concreto e razionale avvalorato, peraltro, da uno storico militare come Basil Liddel Hart. Questi, nel 1930, commentando l’inizio della Prima guerra mondiale, scriveva: «In tempo di pace la tecnica militare è così potente da scatenare la guerra: in tempo di guerra è così impotente da non riuscire ad assicurarsi la vittoria» (da “La prima guerra mondiale 1914-1918, Rizzoli, pag. 56).
Se scorro a memoria, delle guerre di questi ultimi trent’anni ben poche sfuggono a questa regola ferrea. E questo perché, in guerra, la forza militare non è tutto ed è al servizio della politica e il fine della politica deve essere la pace: una pace vera, non quella del cimitero, e che passa necessariamente per la compassione per il nemico.
Sotto questo aspetto ti propongo il pensiero di Tolkien che, nel 1945, dopo che il proprio Paese aveva subito incursioni aeree tedesche per ben cinque anni, scriveva scandalizzato che i propri compatrioti «provavano gusto a sentire delle code interminabili lunghe quaranta miglia di miserabili rifugiati, donne e bambini (tedeschi, ndr) che si riversano verso ovest morendo per strada. Sembra che non restino sentimenti di misericordia o compassione né immaginazione in questa oscura ora diabolica. Con questo non intendo dire che nella situazione attuale creata principalmente ma non solo dalla Germania non sia tutto necessario e inevitabile, ma perché provarne gusto? Dovremmo avere raggiunto un livello di civiltà in cui potrebbe essere ancora necessario giustiziare un criminale, ma senza gioirne e senza impiccare sua moglie e suo figlio accanto a lui mentre la folla di orchi ride sguaiatamente».
Caro Direttore,
quella che viviamo oggi è l’ora degli orchi: gli orchi di Hamas che hanno trucidato selvaggiamente centinaia di israeliani e gli orchi israeliani che, in questi anni, hanno più volte goduto per le deliberate distruzioni ed efferatezze inflitte ai civili palestinesi. Un tempo in cui Vladimir Putin, oltre alle solite menzogne, ha potuto dire che «c’è una vecchia regola: dove si posa il piede di un soldato russo, quella è terra nostra». Una frase proferita pochi giorni fa al Forum di San Pietroburgo e che non ha avuto l’eco che meritava. Ma, a fronte di questo atteggiamento barbarico, degno più di Gengis Khan (uno dei padri spirituali della Russia odierna), sta quello del comunicato del G7 che andrebbe analizzato per intero per cinismo e spregiudicatezza. Dopo aver ribadito il diritto di Israele a difendersi (Nota: dopo quasi 60.000 gazawi morti) e che l’Iran non deve possedere un’arma nucleare i capi del governo occidentali esortano a una de escalation e concludono con una frase che è l’epitaffio sulla pietra tombale della cultura occidentale quale l’abbiamo conosciuta dai tempi dell’antica Grecia ad oggi: «Resteremo vigili rispetto alle implicazioni per i MERCATI energetici internazionali e pronti a coordinarci, anche con partner che condividono i nostri stessi VALORI, per tutelare la stabilità del MERCATO».
Se fossero solo i capi dei governi a dire e a pensare questo potremmo anche avere una speranza ma questo punto di vista è largamente condiviso in Occidente e, purtroppo, anche tra cattolici che adottano i criteri della geopolitica. La speranza può venire dalle parole di Dimitrij Strocev, dissidente ed esule bielorusso che ha esortato, anni fa, a metter da parte la “politica” e tornare alla “poetica”, alla centralità della persona. Proprio quello che fanno i nostri papi. Da questo si può ripartire. Da una Nuova Europa fondata sull’umano.