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AFRICA

Quel che della guerra in Libia ci siamo "dimenticati"

L'iniziativa del Gruppo di contatto
di riconoscere i ribelli di Bengasi
come governo legittimo, allontana
la possibilità di un serio negoziato.

Attualità 18_07_2011
Muhamar Gheddafi
I 41 stati che compongono il Gruppo di contatto sulla Libia hanno deciso all’unanimità, durante il vertice del 15 luglio a Istanbul, di ufficializzare il riconoscimento come "legittima autorità libica" del Consiglio nazionale di transizione, Cnt, l’organismo creato dai clan cirenaici in rivolta contro il governo di Tripoli. Con ciò il Gruppo conferma la propria intenzione di svolgere una funzione di pressione sul governo del presidente Gheddafi più che di mediazione tra le parti.


In effetti, l’iniziativa incoraggia piuttosto il Cnt a respingere ogni proposta di negoziato che non presupponga la definitiva e totale scomparsa di scena di Gheddafi e di tutta la sua discendenza. Il medesimo risultato - rallentare se non interrompere una road map verso una sospensione dei combattimenti - ottiene anche la decisione della Corte penale internazionale, Cpi, di spiccare un mandato di cattura nei confronti di Muhammar Gheddafi, di suo figlio Seif al-Islam e del capo dei servizi segreti libici, Abdallah Al-Senoussi, accusati di crimini contro l’umanità commessi dall’inizio del conflitto civile. Poiché gli stati sottoscrittori della Cpi si impegnano ad arrestare chi è oggetto di un suo mandato internazionale di cattura qualora transiti entro i loro confini nazionali, la prospettiva di un arresto e di anni di carcere in attesa di giudizio non può che rendere meno probabile una resa del colonnello Gheddafi, la sua scelta dell’esilio. Al contrario, l’incriminazione può contribuire a fargli decidere di combattere a oltranza, fino alla vittoria o alla morte.


Si spiega perciò la reazione vivamente risentita dell’Unione Africana che sta tentando di convincere i contendenti ad avviare dei negoziati e che si è vista rifiutare dal Cnt il piano di pace discusso e approvato durante il suo XVII summit dei capi di stato e di governo svoltosi a Malabo, capitale della Guinea Equatoriale, dal 29 giugno al 1° luglio.

La Cpi «non fa altro che gettare benzina sul fuoco», ha detto il presidente della Commissione dell’Unione Africa, Jean Ping, rammaricandosi per la vanificazione degli sforzi compiuti. Quindi, il 1° luglio, a conclusione del vertice, ha annunciato che, per decisione unanime, i 53 stati membri non daranno esecuzione al mandato, inclusi quelli che hanno aderito alla Corte. L’organismo panafricano, che già nei giorni precedenti aveva protestato dichiarando di ritenere che le forze della Nato siano andate “oltre i termini fissati dalla risoluzione delle Nazioni Unite”, ha poi rivolto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite la richiesta formale di avviare la procedura prevista per l’annullamento del procedimento della Cpi.

Nel frattempo, la mossa che più da vicino interessa l’Italia è stata la decisione di Tripoli di interrompere ogni collaborazione con l’ENI, annunciata dal primo ministro libico Al-Baghdadi Ali Al-Mahmoudi il 14 luglio, alla vigilia del vertice di Istanbul. Il premier libico ha spiegato che il rapporto di partenariato con l’Italia è finito e che in futuro il nostro Paese non otterrà più contratti petroliferi perché, decidendo di partecipare alla guerra della Nato contro il colonnello Gheddafi, ha violato un punto fondamentale del Trattato d’amicizia, partenariato e cooperazione firmato nell’agosto del 2008 a Bengasi.

Come si ricorderà, il trattato in questione fu molto discusso e da tanti deplorato perché, ponendo fine a un lungo contenzioso, riconosceva alla Libia un risarcimento pari a cinque miliardi di dollari per i danni materiali e morali inflitti al paese dal regime coloniale italiano tra il 1911 e il 1943. Prevedeva però anche una intensa partnership economica di indubbio profitto per l’Italia e un piano congiunto per arginare il flusso migratorio clandestino a partire dai porti libici.


Inoltre, con l’articolo 4, Italia e Libia si erano in effetti impegnate ad astenersi da «qualunque forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte». «Nel rispetto dei principi della legalità internazionale - concludeva l’articolo 4 - l’Italia non userà né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia» e viceversa.

«Siamo noi a dire di no alla Libia» ha replicato il ministro degli Affari Esteri italiano, Franco Frattini. Ovviamente, per quel che riguarda il petrolio, tutto dipende dai futuri sviluppi militari e diplomatici della guerra. In uno scenario irrimediabilmente cambiato, certo è che molti sono gli stati pronti a stipulare comunque accordi commerciali con chi controllerà in futuro le risorse petrolifere libiche: chiunque sia.


L’organizzazione non governativa Human Rights Watch denuncia il Cnt per le numerose violenze sui civili commesse nei suoi territori e soprattutto si domanda con preoccupazione se il Cnt, in caso di vittoria, vorrà e saprà tutelare i clan legati ai Gheddafi e rappresentare l’intera popolazione libica oppure privilegerà i propri clan, a scapito degli altri. Ma, a quanto pare, il dopo-Gheddafi, in questi termini, ancora non preoccupa: anche se è proprio in difesa del popolo libico e dei suoi diritti violati che la guerra a Gheddafi è stata dichiarata.