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LA FOTO RICORDO

Quel bambino con Cassius Clay sono io. É andata così...

Ho incontrato Cassius Clay, poi diventato Muhammad Ali: era il 1960, avevo 9 anni e uno zio italoamericano, un gigante biondo simpaticone e allegro, arrivato a Roma per partecipare alle Olimpiadi. Mi portò tra gli atleti americani e mi fece fotografare con Cassius perché, mi disse, era uno che avrebbe fatto strada…

Cronaca 07_06_2016
Cassius Clay con Rino Cammilleri, allora bambino di 9 anni

Nel 1960 il sottoscritto aveva nove anni e andava per i dieci. A Roma c’erano le Olimpiadi, quelle strepitose di Livio Berruti (oro nei 200 metri) e Wilma Rudolph, la “gazzella nera”. Partecipava anche mio cugino e omonimo, figlio del fratello di mio padre. Era nato negli Usa, perché suo padre vi era emigrato a suo tempo. Perciò gareggiava con la squadra americana. 

A quei tempi gli italoamericani non potevano permettersi di conservare il proprio nome di battesimo, perciò mio cugino era noto come Russell Cammilleri (ma si chiama Rosario, come me, e in famiglia detto Rino, come me). Ero fiero del fatto che fosse un olimpionico, per giunta americano. Sì, perché essere selezionati su oltre duecentocinquanta milioni di abitanti (tanti ne contavano allora gli Usa) non era lo stesso che uscire dalle file italiane. Mio cugino, più anziano di me di oltre dieci anni, gareggiava in una specialità “mediterranea”, la lotta greco-romana, e portò a casa qualche medaglia. Allora per andare in America ci voleva il transatlantico e una lunga navigazione. Il costo dell’aereo era proibitivo, perciò mio padre approfittò dell’occasione per conoscere quel nipote. E mi portò con sé. 

Il mio «primo cugino» -nonché omonimo perché, secondo l’usanza, in quanto primogeniti portavamo il nome del nonno paterno- era un gigante biondo simpaticone e allegro. Il tipico americano dei film e, perciò, dell’immaginario italiano in quegli anni. Fui suo ospite nel villaggio olimpico e a lui affidato nelle scorribande romane. Alla mensa venivano per incoraggiare la squadra americana miti come Bing Crosby e John Wayne, più altri che non riconobbi data la mia età. Una sola volta ”Russ” mi perse di vista, durante un incontro di lotta alla Basilica di Massenzio. Lui non gareggiava quel giorno. Assistevamo dalla tribuna d’onore. Mi disse di non muovermi dal mio posto, ché sarebbe tornato presto. E se ne andò a fare il galletto con le nuotatrici tedesche. 

Dopo due ore non era ancora tornato. Dovetti farlo chiamare con l’altoparlante della giuria. Vabbe’, in fondo era di sangue siciliano. Al villaggio il suo compagno di stanza era un negro (allora si poteva dire così) alto, snello e timido. Me lo presentò e mi disse di farmi una foto con lui perché era uno che avrebbe fatto strada. Eseguii. Il giovane negro aveva al collo un sacco di medaglie. Lui e mio cugino erano amicissimi. Si chiamava Cassius Clay. Come sapete, divenne in effetti famoso. Si fece musulmano non per scelta religiosa, ma perché così facevano i black muslims di Malcom X, l’ala dura contrapposta a quella gandhiana di Martin Luther King. 

Mica sapevano che i loro antenati africani erano stati ridotti in schiavitù e venduti ai trafficanti dagli arabi, e che questi ancora lo facevano qua e là in Africa. Era solo una posizione polemica, che Cassius fece sua quando, in America, un cameriere si rifiutò di servirlo perché negro. Anche se era già un campione affermato. Nacque così Muhammad Alì. Sì, perché chi diventa musulmano deve diventare anche arabo, fin dal nome e dal modo di vestire. In verità, ad “Alì” della religione non fregava nulla, qualunque fosse. Era americano e basta, nel senso pieno della parola, e faceva perciò americanate. 

Oggi lo si celebra come il più grande pugile di tutti i tempi, ma si dimentica che, in un match virtuale simulato al computer, perse ai punti con Rocky Marciano, italiano, luì sì il più grande di sempre. Cassius-Alì è l’unico boxeur che io abbia mai seguito, ora sapete perché. Riposi in pace.