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DIPLOMAZIA

Pescatori prigionieri in Libia, l'Italia ci perde comunque

I 18 pescatori di Mazara del Vallo (tra cui 8 di nazionalità italiana), tenuti prigionieri in Libia da tre mesi dalle milizie di Haftar, potrebbero essere liberati in cambio di quattro calciatori-trafficanti di esseri umani detenuti in Italia. Un cedimento al ricatto che prepara per i cittadini italiani all'estero un futuro difficile.

Editoriali 27_11_2020

L’infinita saga dei 18 pescatori di Mazara del Vallo (8 dei quali di nazionalità italiana) prigionieri da inizio settembre delle milizie dell’Esercito nazionale libico (LNA) del generale Khalifa Haftar, potrebbe forse aver trovato uno spiraglio di soluzione. Dopo quasi tre mesi di chiacchiere politiche inconcludenti e di trattative segrete è stato il vicepresidente del governo di Tripoli, rivale di Haftar, a fornire qualche indicazione utile circa l’andamento dei negoziati sui quali il governo italiano non ha mai saputo esprimere nulla di concreto nascondendosi dietro alla necessità di mantenere la necessaria riservatezza.    

"Lavoriamo assiduamente per la liberazione dei pescatori italiani. Anche oggi i miei collaboratori ne stavano parlando con gli ufficiali di Bengasi” ha detto, in un'intervista al Corriere della Sera, Ahmed Maitig, vicepresidente del Consiglio presidenziale a Tripoli aggiungendo che “credo la direzione sia quella dello scambio con i calciatori libici condannati al carcere in Italia".
La liberazione dei “calciatori”, condannati da un tribunale italiano per traffico di esseri umani, è sempre stato il “riscatto” che Haftar ha chiesto per liberare i 18 uomini e i due pescherecci Antartide e Medinea, accusati anche di traffico di droga.

"Gli italiani sono attivissimi, lavorano a tempo pieno. Tra i nostri due Paesi esistono trattati per lo scambio di prigionieri. Credo sia questa la strada. Seguiremo le nostre legislazioni in merito. Spero nel successo il prima possibile. Ma non so quando di preciso" ha detto Maitig che senza dubbio per l’Italia è l’uomo giusto a cui rivolgersi dal momento che è il solo esponente del governo di Tripoli ad avere ottime relazioni con quello di Tobruk e con la famiglia di Haftar.

Protagonista indiscusso dei recenti negoziati per la stabilizzazione, Maitig concluse l’accordo firmato a Soci (Russia) con uno dei figli di Haftar che ha recentemente permesso la riapertura dei pozzi e dell’export petrolifero in tutta la Libia consentendo di dare ossigeno all’economia della ex colonia italiana.
Amico dell’Italia, Maitig è un moderato lontano dalle derive islamiste dei Fratelli Musulmani che stanno ostacolando il processo di pacificazione ed è un leader stimato a Mosca come a Washington, nel mondo arabo come ad Ankara, a cui guarda la comunità internazionale come futuro premier.

Ciò detto la vicenda dei pescatori prigionieri a Bengasi rappresenta dopo tre mesi una severa umiliazione per l’Italia, tagliata fuori come l’intera Europa dalle sfere d’influenza che contano e che incidono sul processo di pace libico. La loro liberazione in seguito a uno scambio con i quattro trafficanti-calciatori detenuti in Italia rappresenterebbe una soluzione utile a riportare finalmente a casa, dalle loro famiglie, i nostri connazionali ma costituirebbe allo stesso tempo uno smacco ulteriore per la già compromessa credibilità dell’Italia.

Haftar non rappresenta un movimento terroristico a cui pagare riscatti milionari per ottenere la consegna di cittadini italiani rapiti ma è il capo militare di forze armate che fanno capo al governo di Baida espresso dal parlamento di Tobruk, quest’ultimo riconosciuto dalle Nazioni Unite tanto quanto il governo di Tripoli.
Il feldmaresciallo è a tutti gli effetti un esponente istituzionale: ha incontrato molte volte presidenti, premier e ministri anche italiani, ha firmato nel 2015 un accordo di cooperazione militare con la Russia e ha la cittadinanza libica, ma anche quella statunitense dopo aver vissuto per molti anni in Virginia, vicino al quartier generale della CIA, dopo aver abbandonato la Libia di Gheddafi dove era caduto in disgrazia.

Proprio per questo cedere al ricatto consegnando quattro criminali già condannati dalla nostra giustizia costituirebbe un pessimo segnale per il prestigio (residuo) di Roma e del suo governo che, ancora una volta, ha chiesto aiuto alla Ue senza ottenere nulla di concreto.

Fonti ben infirmate riferiscono che i quattro calciatori sarebbero i rampolli di importanti leader di tribù che sostengono Haftar, di fronte alle quali il generale punta a uno scambio di ostaggi che rinnova un modus operandi molto in voga anche in Europa nei secoli scorsi ma ancora diffuso e attuale nel mondo arabo.   

Valutazioni che non possano però sottrarci dall’osservare che la liberazione di criminali condannati dalla giustizia italiana per uno scambio di ostaggi potrebbe costituire un precedente pericoloso. Quante organizzazioni jihadiste, terroristiche o criminali, internazionali o che pure abbondano entro i nostri confini nazionali, potrebbero domani trovare conveniente sequestrare liberi cittadini, servitori dello Stato o lavoratori chiedendo di barattarli con ergastolani, boss in isolamento carcerario o persino rubagalline e criminali di mezza tacca la cui liberazione sta a cuore a parenti e compari.

Cedere al ricatto di Haftar significa potenzialmente doversi preparare anche ad accettarne di simili da Stati “canaglia”, leader tribali e “feldmarescialli” d’Africa trasformando ogni italiano che per lavoro o altre ragioni entri o si avvicini ad alcuni Stati instabili in preda preziosa.

Vale poi la pena sottolineare che in questi tre mesi il governo Conte non ha mai nemmeno provato ad “alzare l’asticella” dell’escalation schierando un gruppo navale con elicotteri e forze speciali di fronte a Bengasi. Non necessariamente per attuare blitz (che non appartengono alla cultura politica, da sempre “calabraghista” di un’Italia che peraltro schiera forze speciali tra le migliori del mondo), ma quanto meno per ricordare a tutti che per liberare i connazionali prigionieri non si esclude nessuna opzione e per ribadire la libertà di navigazione nel Golfo della Sirte, acque internazionali su cui la Libia arbitrariamente esercita la sua sovranità da oltre dieci anni.
Infine, la minaccia di un blitz militare italiano avrebbe forse indotto gli sponsor di Haftar a esercitare pressioni sul generale affinché liberasse i pescatori, anche solo per evitare un’escalation militare pericolosa, specie ora che tutti gli Stati che contano in Libia sono alle prese con un difficile processo di stabilizzazione.

Due o tre navi militari italiane al largo di Bengasi avrebbero espresso una reale deterrenza e preoccupato tutti i protagonisti della crisi libica (in fondo l’Italia è pur sempre la maggiore potenza militare e navale del Mediterraneo) rafforzando un’azione diplomatica da sola troppo fiacca per ottenere il successo.

Il governo italiano ha infatti chiesto un aiuto agli Stati che sostengono Haftar ma finora i risultati sono stati nulli e la ragione più facilmente comprensibile è che tutte le potenze che hanno un peso in Libia hanno tutto l’interesse a ridurre l’influenza di Roma, minata drammaticamente dalla vicenda dei pescatori.