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L'EDITORIALE

Perché festeggiare oggi

Con polemiche, divisioni, tira e molla siamo arrivati alla fatidica data. Ed è giusto festeggiare, per ricordare che ciò che ci unisce è molto più di ciò che ci divide.

Editoriali 17_03_2011

Siamo finalmente arrivati alla fatidica data. Ci siamo arrivati, bisogna riconoscerlo, nel peggiore dei modi: con polemiche, tira e molla, divisioni. Sul senso della festa stessa, sul fatto di celebrarla standosene a casa con la famiglia invece di lavorare. Qualcuno ha insistito con la retorica, qualcun altro con l’antiretorica. Si sono riaperte vecchie ferite, con notevoli paradossi, come ha fatto notare da queste pagine Vittorio Messori: la Lega Nord, espressione popolare di quelle regioni che furono protagoniste del processo risorgimentale (dalla spedizione di mille infarcita di bergamaschi alle vittoriose strategie sabaude), oggi ritiene inutile la celebrazione e lo sventolio di tricolori, marcando una distanza da quel Sud del Paese che centocinquant’anni fa non bramava poi così tanto d’esser liberato e annesso dalle genti padane. Si sono rispolverati toni forti sulla storia risorgimentale e su certe sue pagine problematiche, talvolta con accenni nostalgici di stampo borbonico.


Insomma, ancora una volta, si è sprecata un’occasione per riflettere, e per cercare di costruire sui fatti che hanno portato la nazione italia – giù unita da secoli di fede, cultura e tradizioni comuni – a diventare anche Stato unitario, una memoria comune e condivisa.


Eppure l’unità del Paese va celebrata, considerando che il tricolore, quale che sia stata la sua origine, è diventato il simbolo della nostra patria. Va celebrata seguendo le indicazioni dei vescovi, che negli ultimi mesi hanno insistito sul valore che essa ha rappresentato e rappresenta: oggi anche Benedetto XVI farà giungere un suo messaggio per ricordare la ricorrenza dei 150 anni.


I cattolici dovrebbero celebrarla senza paura di esplorare i meandri della storia, senza tabù su certi episodi del Risorgimento, senza censure sulle matrici spesso dichiaratamente anticattoliche di molti gruppi che contribuirono all’unità del Paese, ma al tempo stesso senza cedimenti a nostalgie passatiste o a revisionismi motivati ideologicamente. La fede cristiana, vissuta e testimoniata da grandi artisti e poeti ha contribuito a forgiare l’ethos del popolo italiano ben prima delle guerre d’indipendenza ottocentesche, e dunque nel 1861 – come pure nove anni dopo, con la fine del potere temporale – non si è inaugurata un’era di aureo progresso che ha chiuso per sempre i tempi bui.

La storia è più complessa. Ci sono stati protagonisti del Risorgimento che consideravano la fine dello Stato Pontificio come primo passo per l’ormai imminente scomparsa del papato stesso e che speravano nella protestantizzazione dell’Italia qualche condizione necessaria per una sua vera modernizzazione. Ci sono stati però anche vescovi, preti, frati e tanti cattolici che si espressero già allora a favore del processo risorgimentale e in molti casi ne furono anche protagonisti.

Quello che è certo è che anche dopo la “ferita” rappresentata dalla presa di Roma e dal Papa «prigioniero in Vaticano», i cattolici hanno continuato a svolgere un ruolo decisivo nel neonato Stato unitario, governato dalle elite liberali. Sono rimasti fuori dal Parlamento, ma sono stati presentissimi nella vita pubblica, nella società, nella scuola, nelle casse rurali, nelle opere assistenziali, nella cultura, nell’informazione. La soluzione della Questione Romana con i Patti del 1929 e poi la rinascita dell’Italia dalle macerie della Seconda guerra mondiale – che ha visto i cattolici protagonisti – dovrebbero aver chiuso per sempre le ferite provocate dal Risorgimento. Non è stato così, purtroppo.


Eppure proprio per questo, ancor di più per questo, oggi bisogna festeggiare. Per ricordare che ciò che ci unisce non è iniziato appena 150 anni fa, tra l’altro con la proclamazione di un regno guidato dai Savoia, ai cui discendenti maschi per oltre mezzo secolo abbiamo negato l’accesso in patria.

Bisogna festeggiare per ricordare che ciò che ci unisce è molto di più di ciò che ci divide.