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IL DIBATTITO

Omogenitorialità e utero in affitto: ambiguità Cei e social

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Condannare l'utero in affitto, ma non l'omogenitorialità? La china ambigua della Cei è la stessa che si vive nel dibattito in questi giorni anche sui social. E' la finestra di Overton che condanna la gestazione per altri per accettare l'omogenitorialità. Ma si tratta di due mali collegati. Ecco perché. 

Editoriali 27_03_2023

Si fa un gran parlare in questi giorni di utero in affitto e omogenitorialità. Di maternità surrogata ha parlato anche, rimanendo come sempre prudentemente e diplomaticamente sul vago, la Conferenza episcopale italiana che, nel comunicato finale della sessione primaverile, ha messo in evidenza che «molte persone ormai, pur con idealità diverse, riconoscono come inaccettabili pratiche che mercificano la donna e il nascituro». Affermare che la Chiesa cattolica condanna tale pratica sarebbe stato troppo cattolico, quindi meglio limitarsi ad una semplice ricognizione di carattere sociologico.

Il segretario generale, monsignor Giuseppe Baturi, nella successiva conferenza stampa ha raccomandato di “non sovrapporre” la questione dell’utero in affitto con il riconoscimento in Italia di minori educati da coppie gay. Poi un giornalista ha chiesto se tale riconoscimento potesse essere un cavallo di Troia per riconoscere l’utero in affitto. Gli ingenui si sarebbero aspettati una conferma da Baturi. Costui invece è andato per campi e ha dichiarato: «Quello che mi preoccupa di più è che tra le discussioni sugli strumenti giuridici da mettere in campo per normare una questione così delicata, vengano inseriti motivi di propaganda e usati slogan che non guardano alla tutela della dignità della persona. Se si creano strappi per affermare alcune visioni, si rischia di non guardare all’oggetto vero della questione, che è la dignità della persona».

Ci auguriamo, ma invano, che quando monsignore ha fatto riferimento all’eventualità di normare la materia dell’omogenitorialità formatisi all’estero, intendesse una normativa volta a vietare l’iscrizione in anagrafe di minori non figli biologici di nessuno dei due partner della coppia omosessuale. Anche perché in punta di diritto in Italia l’omogenitorialità è vietata. Al di là di questo, evidenziamo che la Cei per bocca di Baturi bacchetta l’utero in affitto, ma volutamente non si pronuncia sull’omogenitorialità. Silenzio assenso?

Lasciamo da parte le letali ambiguità della Cei e i suoi silenzi omertosi e volgiamo la nostra attenzione ai media e ai social. Come accennato, in questi giorni tiene banco il doppio tema dell’omogenitorialità e dell’utero in affitto. Il trend è il seguente: tutti accettano l’omogenitorialità, sia quella made in Italy sia quella formatasi al di fuori dei confini nazionali. Il dibattito vero è sull’utero in affitto. In sintesi: bene che i gay abbiano dei figli, sull’utero in affitto invece parliamone.

È uno dei classici processi della finestra di Overton: un certo fenomeno prima viene rifiutato dalla collettività, poi tollerato, quindi accettato ed infine promosso tanto che si fa guerra a chi lo contesta. L’omosessualità fu socialmente rifiutata fino a qualche decennio fa, poi tollerata, quindi accettata ed infine promossa. Digerita l’omosessualità occorreva far digerire il riconoscimento delle coppie gay, cosa che avvenne con gli stessi step prima indicati. Assimilate pure le coppie gay, toccò all’omogenitorialità, fenomeno che anch’esso ormai è entrato a far parte dell’arredo della mentalità corrente. Ora è il turno della maternità surrogata che è spesso connessa con l’omogenitorialità, così come questa era collegata con le coppie gay e queste con l’omosessualità. A dimostrazione che nel male tutto è connesso e che se si abbatte la prima tessera del domino le altre cascheranno inevitabilmente. È solo questione di tempo.

Dicevamo che omogenitorialità e utero in affitto sono spesso collegate perché due maschi gay per avere un “figlio” loro, qualora nessuno dei due lo abbia avuto per vie naturali, potranno o adottarlo o commissionarlo tramite maternità surrogata (pratica a cui difficilmente per ovvie ragioni accedono le coppie lesbiche).

Ciò detto l’omogenitorialità dal punto di vista morale è una condizione diversa dalla pratica dell’utero in affitto e presenta criticità morali assai rilevanti. In primo luogo l’inserimento di un minore in una relazione omosessuale è per lo stesso dannosa sotto più profili, come abbiamo recentemente documentato. Le evidenze scientifiche trovano conferma nella riflessione morale: se l’omosessualità è condizione disordinata, ossia che non rispetta l’ordo impresso nella natura umana che orienta una persona ad essere attratta da un’altra persona di sesso opposto, ne consegue che anche la relazione omosessuale lo sia. E dunque chi vive in tale relazione risente di questo disordine.

L’omogenitorialità poi strappa il minore dal o dai propri genitori biologici ledendo il diritto nativo del bambino di crescere con il proprio padre e la propria madre naturali (questo è necessariamente il punto in comune con l’utero in affitto, come vedremo tra qualche riga). Tra gli infiniti danni collaterali dell’omogenitorialità citiamo infine l’infragilimento del concetto stesso di famiglia perché una coppia omosex con minori a carico mima l’istituto della famiglia e fa passare l’idea che anche quella relazione sia “famiglia”.

Un appunto di carattere giuridico che spesso emerge nei dibattiti su questo tema è: ma se il minore è ormai inserito nella coppia gay che fare? Anche se è da tempo che vive insieme alla coppia gay, non è bene che continui a viverci per i motivi prima accennati. Occorre quindi, se possibile, che torni a vivere con i genitori biologici – eventualità spessissimo irrealizzabile – oppure che venga dato in adozione ad una coppia sposata eterosessuale. Tutto questo pasticcio sarebbe evitabile se, a monte, il divieto di omogenitorialità presente nel nostro ordinamento venisse realmente rispettato da giudici e dagli amministratori locali.

Passiamo all’utero in affitto: questa pratica presenta molteplici riserve morali perché vi sono più atti malvagi che concorrono a realizzarla. In primis e in genere non c’è utero in affitto senza ricorso alla fecondazione artificiale. Qui si aprono diversi scenari e quindi diversi atti immorali: i due gameti possono venire dalla coppia richiedente; i due gameti possono venire uno dalla coppia richiedente e uno da un soggetto esterno (è il caso delle coppie gay); entrambi i gameti possono venire da soggetti estranei alla coppia (è sempre il caso delle coppie gay). L’ovocita, quando non viene dalla donna della coppia richiedente, può essere fornito, ossia venduto, dalla donna gestante oppure da un soggetto terzo.

Tutte queste pratiche sono immorali per i seguenti motivi: separano l’atto unitivo da quello procreativo e dunque reificano il nascituro e tutti i soggetti coinvolti nel processo generativo, in particolare la donna gestante che spesso viene sfruttata perché gallina dalle uova d’oro; espongono il nascituro a rischio elevatissimo di morte oppure a danni seri per la sua salute se vedrà la luce; creano ad hoc orfani impedendo quindi al bambino di crescere con tutti e due o con uno solo dei propri genitori biologici e di conseguenza polverizzando, sotto il profilo psicologico e sociale, il rapporto di genitorialità perché il numero di “genitori” aumenta esponenzialmente.

Anche in questo caso tra gli infiniti danni collaterali dell’utero in affitto, ricordiamo che tale pratica veicola e quindi favorisce l’omogenitorialità. Dunque, a contrario, se si è a favore dell’omogenitorialità non si potrà che guardare con simpatia anche alla maternità surrogata.

Lo scoglio della schiavitù a cui è sottoposta la gestante e che spesso viene citata come obiezione di fondo, sta già per essere superato condannando la mercificazione delle donne e spacciando la pratica come gestazione solidaristica per altri, come atto altruistico, in cui lo scambio di denaro è meramente un rimborso spese, così come prescriverebbe la disciplina normativa di stati come l’Olanda, il Belgio, la Danimarca, la Grecia e il Portogallo. Ma anche ammesso e non concesso che così fosse, rimarrebbero intatte tutte le riserve prima esposte, compresa quella che fa riferimento alla cosificazione del bambino e della gestante, nonché di tutti gli altri soggetti coinvolti, inclusa la coppia richiedente. Ciò perché anche in caso di gestazione gratuita il bambino verrebbe comunque considerato alla stregua di un pacco: pacco dono per la precisione, ma pur sempre di pacco si tratterebbe. L’utero in affitto diventerebbe un utero in comodato d’uso, ma la sostanza delle cose non muterebbe perché la donna gestante rimarrebbe comunque una incubatrice di carne, che gratuitamente si presterebbe a questo svilimento della sua persona e a sfornare orfani per l’egoismo dei committenti.

Torniamo all’omogenitorialità e all’utero in affitto: abbiamo dunque visto che entrambi sono fenomeni sociali i quali, pur nella loro diversità, sono da condannare duramente sotto il profilo morale. Omogenitorialità e utero in affitto sono poi collegati reciprocamente. Infatti le coppie gay maschili spesso hanno bisogno dell’utero in affitto per avere un “figlio” e dunque l’omogenitorialità incentiva tale pratica. Di converso la diffusione delle maternità surrogata, anche tra coppie etero, incoraggia l’omogenitorialità dal momento che se c’è uno strumento per dare un figlio alle coppie gay perché non usarlo per mettere in piedi una bella “famiglia” arcobaleno?