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Ora di dottrina / 172 – Il supplemento

Mensa del Signore e altare sacro: la specificità cristiana

La Lettera agli Ebrei parla inequivocabilmente di un altare, esclusivo per la comunità cristiana, il che fa traballare le convinzioni sottese alla “svolta costantiniana”. Lo stesso termine θυσιαστήριον indica anche la mensa sacra, legata a un sacrificio. Le ricerche di mons. Heid sulla specificità del cristianesimo.

Catechismo 20_07_2025

Le interessanti ricerche di monsignor Stefan Heid, rettore del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana dal 2020, pubblicate nella monografia Altar und Kirche: Prinzipien christlicher Liturgie (Schnell & Steiner, Ratisbona, 2019) hanno ampiamente messo in discussione le convinzioni sulla liturgia delle origini, che abbiamo riassunto nel precedente articolo sulla cosiddetta “svolta costantiniana”.

Nella Lettera agli Ebrei, l’autore sacro fa un’affermazione, il cui fondamento storico non ha ricevuto un’adeguata attenzione: «Non lasciatevi sviare da dottrine diverse e peregrine, perché è bene che il cuore venga rinsaldato dalla grazia, non da cibi che non hanno mai recato giovamento a coloro che ne usarono. Noi abbiamo un altare del quale non hanno alcun diritto di mangiare quelli che sono al servizio del Tabernacolo» (Eb 13, 9-10). Che cosa significa quel «noi abbiamo un altare»?

È necessario prima di tutto contestualizzare il brano citato. L’autore, tradizionalmente ritenuto san Paolo, esorta i cristiani a non lasciarsi ingannare e trascinare da un comportamento errato di altri fratelli nella fede. Alcuni, infatti, dopo aver ricevuto il battesimo, erano ritornati alle pratiche giudaiche, ritenendole non incompatibili con la professione di fede in Gesù Cristo e con i riti cristiani. In particolare, questi cristiani giudaizzanti mangiavano dei cibi offerti in sacrificio, secondo le disposizioni giudaiche. La Lettera agli Ebrei chiarisce che coloro che «sono al servizio del Tabernacolo» (dettaglio che contribuirebbe a “ringiovanire” la Lettera agli Ebrei, dal momento che il Tempio ancora esisteva e vi si praticavano sacrifici, vedi qui) non hanno diritto di mangiare di ciò che viene offerto sull’altare cristiano.

Il termine utilizzato – θυσιαστήριον (thusiastêrion) – indica inequivocabilmente l’altare. Ma alcuni commentatori hanno pensato ad un riferimento metaforico all’altare della Croce, dove Cristo ha offerto il suo sacrificio; una tale spiegazione però non ha sufficiente fondamento nel testo e non rende ragione del contesto di questi versetti, che è piuttosto chiaro: coloro che «sono al servizio del Tabernacolo», i giudei, hanno il loro altare e si cibano delle offerte che da quell’altare provengono; noi cristiani abbiamo un nostro altare e ci cibiamo di quello che su questo altare viene offerto.

Il testo è di grande interesse, perché rivela non solo la presenza di un altare cristiano nella comunità a cui è rivolta la lettera, ma anche che questo altare è esclusivo: non si può comunicare all’altare cristiano e all’altare giudaico, così come san Paolo ammoniva che «non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni» (1Cor 10, 21).

θυσιαστήριον (thusiastêrion) indica però anche la mensa sacra, come risulta da questo passo del profeta Malachia: «Offrite sul mio altare un cibo contaminato e dite: “Come ti abbiamo contaminato?”. Quando voi dite: “La tavola del Signore è spregevole”» (Mal 1, 7). Nella traduzione della Settanta, “altare” è reso proprio con θυσιαστήριον, ed è posto in stretta connessione con la tavola o mensa del Signore. Partecipare all’altare significa cibarsi di quanto sull’altare è stato offerto. Altare, sacrificio e manducazione delle offerte sono aspetti che si richiamano praticamente in tutti i culti dell’antichità. Tra l’offerta sacrificale e la sua consumazione conviviale non c’è affatto uno iato o una contrapposizione: si mangia ciò che viene offerto sull’altare, e in questo modo si partecipa all’altare. L’altare diviene così la mensa, e la mensa dipende dall’altare.

San Paolo lo dice esplicitamente: «Quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare (θυσιαστήριον)?» (1Cor 10, 18). Quando l’Apostolo dunque insegna che non è possibile partecipare alla mensa del Signore e a quella dei demoni, si sta riferendo all’altare dell’uno e degli altri; non un altare metaforico, ma reale. Ed è interessante notare che il termine mensa (τράπεζα, trapeza) è esattamente quello utilizzato nel testo di Malachia come sinonimo dell’altare; questa mensa non indica semplicemente il pasto sacro, ma la tavola vera e propria, la mensa sacra.

L’espressione trapeza viene utilizzata (cf. Eb 9, 2) anche per indicare la tavola dei pani della presentazione, fatta d’acacia ricoperta d’oro, e che era posta nel Santo del Tempio, sul lato meridionale. Nessun dubbio che questa tavola fosse sacra, sottratta a qualsiasi uso profano, così come i dodici pani posti su di essa, che dovevano stare alla presenza del Signore, per essere poi consumati solo dai sacerdoti.

Si tratta di elementi che indicano piuttosto chiaramente che i riferimenti che troviamo alla «mensa/tavola del Signore» non indicano una mensa comune, ma una mensa sacra, legata al sacrificio. La «mensa del Signore» è quindi un altare sacro, certamente diverso dall’altare sacrificale pagano e dall’altare giudaico che era all’esterno del Santo, perché su questi altari venivano offerti e consumati sacrifici cruenti. E tuttavia è un vero altare, su cui si compie il sacrificio incruento dell’offerta del pane e del vino, al modo di Melchisedek, a cui poi comunicano i fedeli; una tavola sacra, dunque, sulla quale si consuma un’azione sacra a cui segue un pasto sacro, non un pasto comune.

Un altare/mensa che non solo può essere utilizzato per questo scopo cultuale, ma anche un altare/mensa al quale possono comunicare solo coloro che sono consacrati con il battesimo e non si sono contaminati partecipando ad altri altari. È il minimo che si possa pensare quando si leggono la Lettera agli Ebrei e la Prima Lettera ai Corinzi, che ammoniscono a non partecipare agli altari dei giudei e dei pagani, mangiandone le offerte. Questo monito non avrebbe senso se si trattasse di un pasto comune, consumato su una mensa comune. Il parallelo è infatti evidente: come i giudei e i pagani hanno i loro altari, a cui comunicano quanti mangiano delle offerte poste su questi altari, così i cristiani hanno il proprio altare, a cui comunicano quanti mangiano del Corpo e del Sangue del Signore, offerti su di esso.

I cristiani non respingono un elemento ben presente nei culti pagani, quello della tavola sacra e del pasto sacro, e in generale la dimensione della sacralità cultuale, ma ne rifiutano invece gli altari sacrificali e, soprattutto, la possibilità di una “intercomunione” tra i due altari (e anche con quello giudaico). «Ancora una volta, – conclude mons. Heid – il Cristianesimo emerge non come un’anti-religione ma piuttosto come una religione integrale».



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