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L'EDITORIALE

Libia, un film già visto

La proposta di creare in Libia zone di interdizione al volo e la minaccia di intervento armato della Nato ripropongono una strategia già vista (malamente) all'opera in Iraq.

Editoriali 09_03_2011

Per quanto sta accadendo intorno alla Libia non si può fare a meno di provare la sensazione di un film già visto. Il che non è per niente rassicurante. La proposta di zone interdette al volo (no fly zones) e le minacce di intervento militare della Nato per costringere il leader libico Gheddafi a lasciare il potere sembrano ripetere – ma in peggio – quanto accadde dopo la prima guerra del Golfo nel 1991. In quell’occasione dopo aver rinunciato a far cadere Saddam Hussein nel corso della guerra, Usa, Regno Unito e Francia imposero la prima no fly zone nel sud dell’Iraq nel 1992 per difendere la popolazione sciita, a cui fu aggiunto nel 1996 anche il nord per proteggere le operazioni umanitarie e la popolazione curda.

Undici anni di no fly zones riuscirono a indebolire Saddam ma non tanto da farlo cadere, al punto che ci volle la seconda Guerra del Golfo (2003) per portare al rovesciamento del dittatore, cosa peraltro niente affatto risolutiva visto che tuttora quel conflitto resta aperto con tanto di truppe occidentali ancora impegnate in Iraq.

Quel che si tende a ignorare è il fatto che imporre una no fly zone è già un ingresso in guerra, perché si tratta di un’operazione che non implica soltanto il pattugliamento dei cieli ma anche l’attacco alle eventuali basi della contraerea. Tanto è vero che l’Iraq ha subito pesanti e continui bombardamenti nel periodo delle no fly zones (e dell’amministrazione Clinton), con elevate perdite nella popolazione civile, visto che la contraerea si trovava spesso piazzata in prossimità di ospedali o abitazioni.In Libia, se Gheddafi riuscirà a prolungare la sua resistenza, si prospetta uno scenario analogo, anzi peggiore.

Gli eventi hanno colto di sorpresa per ben due volte tutti i governi occidentali: all’inizio nessuno si aspettava che le rivolte iniziate in Tunisia e Algeria arrivassero in Libia; poi, nel giro di pochissimi giorni Gheddafi sembrava spacciato, con esercito, ministri e ambasciatori che passavano nelle file della resistenza. Così in Europa e negli Stati Uniti è iniziata la gara a chi condannava più duramente il Colonnello Gheddafi, anche per far dimenticare in tutta fretta che fino al giorno prima tutti – non solo l’Italia – con lui intrattenevano lucrosi rapporti. “Tanto in poche ore tutto è finito”, si pensava; e invece passano i giorni, passano le settimane e addirittura Gheddafi è all’attacco per recuperare posizioni e città perdute.

A questo punto Europa e Stati Uniti sono praticamente in trappola: non possono tornare indietro, sono costretti ad andare avanti nell’escalation di minacce contro Gheddafi con il rischio di trovarsi a fare una guerra senza una strategia precisa, un’idea chiara sul dopo-Gheddafi. Il tutto mentre i capitoli Iraq e Afghanistan sono tuttora dolorosamente aperti, e tutto il Nordafrica e il Medio Oriente ribollono di proteste e manifestazioni contro i rispettivi regimi. Per l’Italia la prospettiva sarebbe anche peggiore, visto che un eventuale conflitto si svolgerebbe a pochi chilometri dai nostri confini.

Ed è anche curioso osservare come oggi la minaccia di un intervento armato contro Gheddafi, e la riproposizione di misure già rivelatesi fallimentari, venga da quel presidente americano insignito di un Premio Nobel per la Pace “sulla fiducia”, che sembrava dovesse cancellare quella pretesa di “esportare la democrazia” attribuita al suo predecessore.

Un intervento armato che abbia come obiettivo la caduta di Gheddafi, magari attraverso l’imposizione di no fly zones, sarebbe dunque un errore gravissimo, foriero di altri e duraturi guai. Gli unici interventi necessari e urgenti sono quelli che vanno sotto il nome di “ingerenza umanitaria”, secondo la definizione di Giovanni Paolo II. Interventi cioè che minimizzino le conseguenze del conflitto sulla popolazione civile. Come, ad esempio, quelli già messi in atto dall’Italia con l’invio della nave Libra che a Bendasi ha scaricato tonnellate di cibo e farmaci destinati a ospedali e città della Cirenaica. E quelli necessari per portare soccorso alle migliaia e migliaia di immigrati provenienti da Asia e Africa che in Libia avevano trovato un lavoro e ora sono in fuga nel deserto, in attesa di qualcuno che li riporti nei paesi d’origine.

Pensare che basti togliere di torno Gheddafi per mettere a posto la situazione è invece una pericolosa illusione.