L'era della pochezza, che genera culle vuote da cuori sterili
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Siamo ricchi soltanto di luoghi comuni, uniamo il futile al dilettevole purché ci facciano dimenticare l'essenziale. Ma una povertà così estrema può lasciare spazio a un miracolo che dissolva la dittatura del "miseramente corretto".

Viviamo nell’epoca della pochezza. La povertà dei valori è diventata essa stessa un povero stereotipo, seppur vero. Il rispetto dell’altro, la mia libertà finisce dove inizia la tua, ognuno fa le sue scelte, non sono più nemmeno frasi fatte, bensì gironi danteschi di un inferno popolato di indigenti dal cuore arido, ricchi solo di luoghi che sono comuni perché affollati. Ma quest’anime dannate a vivere di banalità non hanno forse tutte le colpe.
Le idee sono poche, sempre le stesse, stanche e scipite. L’indigenza del pensiero si riflette nella penuria lessicale. Emanuele Samek Lodovici sosteneva che «chi non ha le parole non ha le cose», perché i termini sono concetti parlanti ed indicanti la realtà. E dunque non potrà possederla, ma sarà posseduto da chi ha compilato il vocabolario del vivere sociale, che più che un vocabolario è diventato un Sillabo delle parole e delle realtà proibite. L’intelligenza naturale ha abdicato a quella artificiale che è artefatta quindi finta, di plastica. Il copia incolla è lo strumento del pensare. Il famigerato pensiero unico non indica supremazia – come Bolt, unico ad aver corso i 100 metri veloce come il vento – bensì riserva del ragionare, scorta della mente in esaurimento progressivo, rimanenza non preziosa e imposta da chi vuole assetarci. Mancano le idee, mancano le risposte forse perché mancano persino le domande. La curiosità è merce più rara delle terre rare. Tutti chini sugli smartphone mentre sopra di noi la volta celeste è sfavillante di stelle.
L’autoreferenzialità è cifra caratteristica di questo nostro tempo di penuria estesa ed estrema. L’ombelico è il luogo più abitato del pianeta. Ripiegati su noi stessi, il cielo stellato è, come per Camus, una condanna, non una liberazione e una promessa, come per Dante. La superbia, tara dei nostri geni spirituali fin dal nostro esordio in questo mondo, oggi si chiama narcisismo, che è il nome di un’esistenza vocata alla povertà, perché vocata all’uno, al solo “Io”, l’unica persona per cui valga la pena di vivere, di vivacchiare. Non più aneliti ultramondani, speranze infinite, conati sovraumani, desideri ultimi, bensì solo selfie, scatti al proprio egotismo, all’estatica contemplazione di sé. Ma il chicco che non muore – che non muore a sé stesso – rimane solo, condizione in cui la miseria umana è come una cella, non di un monastero, bensì di un carcere. Il narcisismo porta all’isolamento coatto. La monade è canone esistenziale e strumento esegetico privilegiato della contemporaneità. L’universo è solo quello contenuto appena un millimetro sotto la nostra epidermide. La realizzazione personale, buco nero che tutto inghiotte, è la punizione da scontare come Sisifo, perché impossibile da raggiungere come il paradosso di Zenone in cui la tartaruga non potrà mai essere agguantata dal piè veloce Achille.
Tra i banchi delle chiese la carestia dei credenti è palpabile, tangibile come la ferita del costato di Cristo offerto all’indice di Tommaso. Poca cosa quella carestia rispetto a quella della fede, impareggiabile questa nella sua agonia. Un vero conto in rosso per le casse della Chiesa. D’altronde se la fonte, a monte, s’inaridisce anche a valle, sotto le navate delle chiese, il fiume va in secca. La sterilità del credere nasce dalla ricchezza del peccato, non da quello vissuto però combattuto, ma da quello vissuto perché cercato. La bulimia tutta contemporanea delle libertà si è risolta nel suo contrario: un’anoressia dell’anima, stretta nell’insufficienza del vivere. Se Dio benedice le coppie gay, le altre religioni e maledice chi prega in latino vuol semplicemente dire che siamo arrivati al ground zero della fede. Ma dalle angustie dello spirito nasceranno fiori, come quelli, spavaldi e tenaci, che spuntano nelle strette crepe dei muri.
Mancano i bambini, nelle culle e prima ancora, ovviamente, nel ventre delle madri. L’aridità dei cuori genera sterilità nei lombi. I campi non sono più seminati perché si pensa che quel raccolto costi troppo in termini di affermazione personale, che quel grano sia troppo faticoso da mietere e troppo duro da macinare. Il futuro è una dimensione unipersonale dell’Io e non più tempo da rendere accogliente per i nostri eredi. Il mondo inizia e si risolve con la nostra nascita e la nostra morte. L’aridità da cui veniamo e che lasciamo non ci riguarda. La stirpe è ormai sostantivo arcaico.
La miseria, poi, è l’antitesi dell’essenziale. Se c’è l’essenziale, c’è tutto. La guerra alla natura, metafisicamente intesa, è guerra all’essenza delle cose. Manca ciò che è necessario e siamo impoveriti dalla diffusione del superfluo. L’indispensabile è stato ucciso per inedia dal futile, sorte paradossale in questo mondo votato all’utilitarismo. L’accessorio ha scalzato l’essenziale che sarà pure invisibile agli occhi, ma visibilissimo al cuore. Noi viviamo per gli accidenti, il transeunte, il precario, l’orpello, i punti di tangenza: la vacanza in Patagonia, lo scatto di stipendio e il ribasso dei prezzi, i like sui social, la serie su Netflix, gli zigomi alti e la pancia piatta, lo spritz in centro, le scarpe di Miu Miu, la palestra. Tutte cose buone. Ma, per l’appunto, solo cose.
Viviamo al margine di noi stessi e non ce ne rendiamo conto. Manca, per dirla con Henry David Thoreau, il midollo della vita. La povertà dei nostri giorni si risolve nella mancanza di direzione, di orientamento e quindi di senso, significato: l’essenziale che informa il quotidiano orientandolo all’eterno, innervandolo del divino, o almeno di un Tu capace di farci evadere dal carcere dell’Io, di non farci affogare in noi stessi come Narciso. Il necessario non è sempre inevitabile ed infatti siamo stati bravissimi a scansare il nostro destino, perché troppo arduo, troppo feroce nelle sue pretese, troppo ascendente e trascendente, tanto da farci venire i brividi. I brividi della vita. Meglio un’esistenza da comfort zone, morbida, senza angoli ed asperità, con poco tannino, comodamente adagiata sul divano dell’immanente, tutta da percorrere con imbarcazioni di piccolo cabotaggio e con serafica ma incosciente tranquillità grazie al Lexotan. Abbiamo avvicinato l’orizzonte ed abbiamo allontanato Dio. Ci siamo impoveriti di Lui e di noi stessi. Ci siamo indebitati con il destino con interessi spaventosi.
L’unica ricchezza della pochezza è la sua capillare diffusione. Le sue spore s’infiltrano tra i banchi di scuola, sugli schermi del televisore e dei PC, tra le colonne delle chiese – per quelle chiese che hanno ancora le colonne – sui social, davanti alla macchinetta del caffè in ufficio, nei libri dei supermercati e in quelli del premio Strega (che finiranno anche loro nei supermercati), nelle cene con gli amici e i nemici, a tavola con padre, madre e figli. Il miseramente corretto ha una proprietà invidiabile: la sua capacità di farsi assorbire da qualsiasi superficie pensante, tanto da non renderla più tale. È un prodotto universale, versatile e dunque ricco nelle sue più diverse applicazioni. Impoverisce tutto e tutti, in ogni modo e in qualsiasi condizione. L’unica precauzione è quella di tenerlo lontano dalla luce della verità e dalle fonti di calore del buon senso, altrimenti si guasta. Per il resto è efficacissimo, come un diserbante per le male erbe del bene e del vero, del giusto e del sano.
Questo nostro tempo è il tempo della povertà. Ma è una fortuna perché, in un tempo precedente al nostro, un Bambino decise di venire al mondo sotto un lurido tetto di una squallida e misera stalla. Il miracolo si può ripetere.
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Prendendo fuoco, l'opera di Michelangelo Pistoletto raggiunge (involontariamente) la perfezione, diventando il paradigma visivo della nostra smania di distruggere vita, relazioni, famiglia, Chiesa, passato, identità...