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Ora di dottrina / 176 – La trascrizione

L’Ascensione – Il testo del video

Gesù è risorto a una vita nuova, immortale e incorruttibile. Perciò era conveniente che, dopo la risurrezione, ascendesse al cielo. La sottrazione della sua presenza fisica: propedeutica alla crescita delle tre virtù teologali.

Catechismo 21_09_2025

Oggi trattiamo la quæstio 57, dedicata al mistero dell’ascensione del Signore al cielo. Come di consueto, nell’approccio ai misteri della vita del Signore, san Tommaso si pone la domanda sulla convenienza dell’ascensione. E sempre come di consueto, secondo il suo modo di procedere, san Tommaso non presenta il mistero dell’ascensione del Signore come conclusione di un ragionamento, ma come un fatto che ci viene rivelato. Infatti, nel sed contra – cioè quella parte di ogni articolo dove san Tommaso pone il dato delle Scritture – richiama il Vangelo di Giovanni: «Ascendo al Padre mio e Padre vostro» (Gv 20, 17). Avrebbe anche potuto richiamare il racconto dell’ascensione. Sta di fatto che l’ascesa di Cristo al cielo è un dato che ci viene dalla Rivelazione, un dato che è attestato da testimoni oculari che ce lo hanno trasmesso.

Posta questa scelta fatta dalla divina sapienza, noi possiamo indagarne le ragioni. E sono queste ragioni che san Tommaso pone nel corpo e nelle risposte alle obiezioni. Nel corpo dell’art. 1 della quæstio 57 il ragionamento essenziale che san Tommaso fa è questo: noi sappiamo che il Signore Gesù è risorto per non morire più; è risorto non semplicemente tornando alla vita mortale, segnata dalla corruzione, ma è risorto ad una vita nuova che non conosce più la generazione, la corruzione, l’infermità, il dolore.

Ora, proprio perché è una vita nuova, che non è caratterizzata dagli elementi della vita di quaggiù, era conveniente che il Signore, dopo la risurrezione, ascendesse al cielo. Che cos’è il cielo? È quel luogo e quella condizione dove appunto la vita non è più segnata dalle vicissitudini di quaggiù, non è più segnata dalla corruzione, che è un po’ la cifra che caratterizza questo mondo. Dunque, è una convenienza dovuta al tipo di vita acquisita dal Signore nella sua risurrezione. Ed è quella condizione a cui saranno chiamati tutti coloro che saranno trovati in Cristo alla loro morte, prima nella beatitudine delle loro anime e poi anche nel ridondare di questa beatitudine nei loro corpi.

Vediamo il corpo dell’art. 1: «Dopo la risurrezione Cristo iniziò una vita immortale e incorruttibile. Essendo dunque il luogo in cui noi abitiamo quello della generazione e della corruzione, mentre quello dell’incorruttibilità è il cielo, era conveniente che Cristo dopo la risurrezione non restasse sulla terra ma ascendesse al cielo» (III, q. 57, a. 1). L’argomento fondamentale è quello di una proporzionalità, di un’affinità tra la condizione della vita di Cristo risorto e il luogo. Dunque, un luogo di incorruttibilità per una vita di incorruttibilità.

San Tommaso si pone un’interessante obiezione, un’obiezione “pastorale”. Potremmo dire, secondo la nostra logica, che forse sarebbe stato più conveniente che il Signore fosse rimasto quaggiù, in questa vita segnata dalla corruzione, perché in questo modo l’annuncio della vita eterna avrebbe sicuramente avuto un’efficacia maggiore: sarebbe stato cioè più efficace vederlo risorto, anziché vedere semplicemente la sua Chiesa e la sua azione sacramentale. In fondo è un po’ il ragionamento di tutti noi: l’idea che se il Signore, Cristo risorto, fosse presente qui, con il suo corpo, già divinizzato, tutto il mondo si sarebbe convertito e tutti saremmo salvi. Ma non è proprio così. E san Tommaso espone qual è l’utilità dell’ascensione del Signore al cielo.

Ricordiamo che nel Vangelo il Signore dice: «È bene per voi che io me ne vada» (Gv 16, 7). Noi facciamo fatica a capire questa frase, perché per la nostra logica sarebbe stato molto meglio che il Signore rimanesse. Secondo noi, la sua presenza visibile, tangibile, udibile avrebbe avuto più forza di testimonianza, di conversione. Ma evidentemente, se il Signore ha scelto diversamente, vuol dire che le cose non vanno come pensiamo noi. E san Tommaso ci spiega anche il perché. Vediamo la risposta alla terza obiezione, dove Tommaso ci dice che la sottrazione della presenza corporea visibile del Signore ai suoi fedeli ha in realtà una grande utilità, posto ovviamente che il Signore non ci ha lasciato orfani: il ragionamento di san Tommaso funziona perché il Signore continua ad essere realmente presente, ma non lo è dal punto di vista della sua presenza visibile, tangibile, esperibile per i nostri sensi. Se il Signore fosse del tutto assente, questo ragionamento che stiamo per fare crollerebbe. Invece, la convenienza dell’ascensione sta proprio nel fatto che ci è sottratto un certo tipo di sperimentabilità della presenza del Signore Gesù, ma non ci è sottratta la presenza: Cristo continua ad essere presente e ad agire nel mondo, nella sua Chiesa, nelle anime. E vediamo perché.

Nella risposta alla terza obiezione, Tommaso dice: «La stessa ascensione di Cristo al cielo, con cui egli ci tolse la sua presenza fisica, ci fu più utile di quanto sarebbe stata tale presenza» (III, q. 57, a. 1, ad 3). Per noi questo è sconvolgente perché non ragioniamo secondo la logica di Dio. E perché? Sostanzialmente san Tommaso ci dice che la sottrazione della presenza fisica sperimentabile dà spazio, per così dire, alla crescita delle tre virtù teologali: la fede, la speranza e la carità. Vediamo le ragioni che dà san Tommaso: «Primo, per l’accrescimento della fede, che ha per oggetto le realtà invisibili» (ibidem). E poi cita un commento di sant’Agostino al Vangelo di Giovanni: «Beati infatti sono coloro che crederanno senza aver visto, perciò sarà la nostra giustizia a condannare il mondo, poiché crederete in me senza vedermi». Cioè, la fede ha certamente come sostrato, come bisogno di appoggio, la testimonianza. E tuttavia, se anziché la testimonianza, ci fosse già l’evidenza, la visione, lo sperimentare una presenza, allora non sarebbe più fede. Posto il fondamento della testimonianza apostolica, dei testimoni oculari, la presenza del Signore si sottrae e permette alla fede di crescere. Detto in altri termini: questa vita è segnata dalla fede; e la vita eterna è la trasformazione della fede in visione. La fede è richiesta: non è possibile arrivare alla visione senza che la fede si sia sviluppata, si sia radicata, fortificata, purificata. E dunque la fede che ha per oggetto le realtà invisibili, ha bisogno dell’invisibilità per crescere, per esercitarsi, per fortificarsi. Se si toglie l’invisibilità, la fede non ha più quel materiale su cui – usiamo questa espressione per capirci – “farsi le ossa”, far crescere i propri muscoli.

«Secondo, per sollevare la nostra speranza. Da cui le sue parole: “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me perché siate anche voi dove sono io” (Gv 14, 3). Col portare infatti in cielo la natura umana che aveva assunto, Cristo ci ha dato la speranza di potervi giungere anche noi. Poiché, come dice il Vangelo: “Dove sarà il corpo, là si raduneranno le aquile” (Mt 24, 28). E in Michea si legge: “Egli è salito aprendo la strada davanti a loro” (2, 13)» (ibidem).

Di nuovo, con l’ascensione di Cristo al cielo noi abbiamo un’elevazione della speranza; la speranza non è più posta nelle cose di quaggiù o, meglio, non principalmente, ma segue il movimento di Colui che è oggetto della nostra speranza. E dunque la speranza si eleva insieme a Cristo che si eleva. Dice infatti Tommaso: «Col portare in cielo la natura umana che aveva assunto, Cristo ci ha dato la speranza di potervi giungere anche noi» (ibidem). Cioè, la nostra speranza, la speranza che non è soggetta al mutamento e alla corruzione di quaggiù, ma appunto è custodita, collocata dove non c’è corruzione, è ormai un traino che ci eleva. Quindi, la nostra speranza viene finalmente sollevata, purificata, portata verso l’alto; non è più una speranza orizzontale, cioè soggetta ai limiti evidenti di questo mondo, ma è una speranza custodita laddove nessun ladro può rubare, dove la ruggine non può consumare, eccetera, come dice il Signore.

«Terzo, per sollevare l’affetto della nostra carità verso le realtà celesti. Dice infatti l’Apostolo: “Cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio, pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra” (Col 3, 1 ). E il Vangelo dichiara: “Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6, 21). Poiché dunque lo Spirito Santo è l’amore che ci rapisce verso le realtà celesti, il Signore disse ai suoi discepoli: “È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato ve lo manderò” (Gv 16, 7). E sant’Agostino [sempre nel commento al Vangelo di Giovanni] spiega: “Voi non potete accogliere lo Spirito Santo, fino a che vi attardate a conoscere Cristo secondo la carne. Ma una volta che Cristo fu corporalmente partito, essi ricevettero spiritualmente non solo lo Spirito Santo, ma anche il Padre e il Figlio”» (ibidem). La carità si sublima, si eleva là dove è il nostro tesoro. Il nostro tesoro è nei cieli, la nostra carità, il nostro amore si eleva nei cieli, si fortifica, si potenzia in questa elevazione. E vedete come ritorna questo testo: «È bene per voi che io me ne vada». Qui san Tommaso lo porta come riferimento alla carità, ma in realtà lo potremmo applicare a tutte e tre le virtù teologali che, in questa sottrazione del Signore, potremmo dire, ci guadagnano.

È piuttosto evidente in questo articolo la diversità marcata del nostro modo di ragionare e del modo di ragionare di Dio, perché in fondo noi ragioniamo in termini mondani, ragioniamo come se l’orizzonte della vita fosse l’orizzonte di quaggiù; e allora la sottrazione di Cristo nella sua corporeità o, meglio, nella sua tangibilità ci sembra una perdita. Ma se noi ragioniamo invece nel senso che la nostra patria, la nostra vera vita è lassù, allora comprendiamo che questa sottrazione è un bene per noi, perché crescono quelle virtù che sono la nostra vita e che si trasformeranno: la fede in visione, la speranza in certezza, la carità rimarrà come possesso. Così, queste virtù caratterizzeranno la vita eterna, alla quale noi ci stiamo in questo momento preparando, verso la quale stiamo tendendo, precisamente attraverso il dono, l’esercizio delle tre virtù teologali.

Proseguiamo la nostra esposizione della quæstio 57 con gli articoli 2 e 3. Gli altri tre articoli li vedremo la prossima volta perché questo è un capitolo un po’ complesso.

Nell’art. 2, san Tommaso si chiede se ascendere al cielo si addica a Cristo secondo la natura divina o secondo la natura umana. Quale delle due è la risposta giusta? San Tommaso dice che dipende da quello che intendiamo con la parola “secondo”; vedete com’è importante la distinzione: stiamo parlando dei misteri di Dio, stiamo parlando di qualcosa che ci supera e quindi bisogna cercare di comprendere – per quanto è possibile alla natura umana, illuminata dalla fede – e di capirsi, facendo grande attenzione all’uso delle parole. L’eresia nasce proprio da un modo unilaterale di intendere le parole, escludendo delle parti del vero.

Qui bisogna capire cosa significa questo “secondo”. Cosa vuol dire “secondo la natura divina” e “secondo la natura umana”? San Tommaso ci dice: noi possiamo usare questa parola in due significati, con due sfumature. La prima, che è quella forse un po’ più immediata nell’utilizzo, indica la condizione del soggetto di cui sto parlando. Quindi, “secondo la natura divina”, o “secondo la natura umana” vuol dire secondo quello che è proprio della condizione di quella natura. San Tommaso ci dice che se parliamo in questo senso, «allora l’ascendere non può essere attribuito a Cristo secondo la condizione della natura divina, sia perché nulla può trovarsi al di sopra della divinità, sia perché l’ascensione è un moto locale che non può essere attribuito alla natura divina» (III, q. 57, a. 2). Sotto questo aspetto, se io intendo questo “secondo la natura divina” come la condizione della natura divina, è chiaro che l’ascensione non le si addice, perché la divinità non deve ascendere al di sopra di nulla, perché nulla esiste al di sopra di sé stessa; neanche le posso attribuire questo per il moto locale, perché non dimentichiamo che il mistero dell’ascensione parte da un moto ascensionale del corpo del Signore visto dai discepoli; non manca quindi la dimensione del moto locale. Chiaramente nessuno sta dicendo che il mistero dell’ascensione si circoscriva all’interno di un mero moto locale; eppure questa è una dimensione che c’è, ma il moto locale non si addice alla divinità. Sotto questo punto di vista, non possiamo dunque dire che Cristo ascese al cielo “secondo la natura divina”. Però, attenzione: se io intendo “secondo la natura divina” come ciò che causa l’ascensione, come se volesse dire “per virtù della natura divina”, allora in questo caso, dice Tommaso, «essendo Cristo salito al cielo per virtù della sua divinità e non della natura umana, si deve affermare che Cristo è salito al cielo non in quanto uomo ma in quanto Dio» (ibidem). Quindi, come vedete, alla domanda se Cristo sia salito al cielo “secondo la natura divina”, la risposta è: dipende. Dipende da quale significato diamo all’espressione “secondo la natura divina”. In un caso non possiamo dire che sia vero, in un altro caso possiamo dire di sì.

Nell’art. 3, san Tommaso propone un ulteriore approfondimento. Sappiamo che Cristo non è stato assunto in cielo, sebbene esistano delle espressioni nel Vangelo di Marco, per cui «il Signore Gesù, dopo aver parlato con i discepoli, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio» (Mc 16, 19). Già abbiamo visto che cosa vuol dire l’espressione «fu risuscitato dal Padre»: questo non significa che la risurrezione non sia avvenuta per virtù propria, ma solo per virtù del Padre. Essendo la divinità una – il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo – ciò che è attribuito alla virtù del Padre, è equivalente alla virtù del Figlio.

Quindi, Cristo ascende al cielo per virtù propria. Quale virtù? La virtù della sua natura divina, che causa l’ascensione del Signore nella sua umanità. Però, san Tommaso fa un’ulteriore precisazione e dice che quando noi parliamo del Signore, parliamo sempre di due nature unite in un’unica persona ma effettivamente distinte: non confondiamo ciò che è proprio della natura umana con ciò che è proprio della natura divina o viceversa. E quindi noi dobbiamo parlare di virtù propria della natura divina e di virtù propria della natura umana. E chiaramente nella virtù propria della natura divina abbiamo il potere di far ascendere al cielo, di causare l’ascensione della persona del Signore.

Ma riguardo alla virtù della natura umana che cosa possiamo dire? Anche qui san Tommaso dice: dipende, dobbiamo distinguere ancora una volta. Se noi consideriamo la natura umana nella sua dimensione puramente naturale, cioè secondo ciò che procede dai principi della natura, è chiaro che la natura umana in quanto tale non ha la virtù di ascendere al cielo; altrimenti noi saremmo pieni di persone che ascendono al cielo, se bastasse la natura umana per riuscirci.

Però, attenzione, c’è un altro aspetto: la seconda virtù nella natura umana è invece quella propria della gloria e con essa Cristo ascese al cielo. Cioè, se io parlo della natura umana glorificata – ossia quando l’anima è invasa, pervasa dalla visione beatifica, e la sua beatitudine ridonda sul corpo – allora devo fare attenzione, perché una delle proprietà della natura umana glorificata è proprio il fatto che il corpo è pienamente soggetto, obbediente, docile all’anima. Ciò che l’anima vuole – e chiaramente vuole solo il bene, perché è un’anima glorificata – il corpo lo compie. E questa non è l’esperienza della nostra umanità quaggiù: certamente il corpo fa anche quello che l’anima gli dice (se io dico al mio braccio “alzati”, si alza), ma non fa tutto quello che l’anima vorrebbe; se io in spirito comandassi al mio corpo di sparire da dove mi trovo per andare in montagna a prendere un po’ di fresco, il mio corpo mi direbbe di non poterlo fare…

Nell’umanità glorificata noi abbiamo questa particolarità. Dice Tommaso: «Sarà tanta la dipendenza del corpo glorioso dall’anima glorificata che secondo il santo [cioè sant’Agostino] “dove vorrà lo spirito, là subito si troverà il corpo: né lo spirito vorrà mai nulla che non sia confacente allo spirito e al corpo”» (III, q. 57, a. 3). Abbiamo cioè questa istantaneità di risposta del corpo a ciò che lo spirito decide, comanda. Allora Tommaso dice: «Come il corpo diviene glorioso [grazie evidentemente all’anima glorificata], così “l’anima diviene beata partecipando di Dio”, dice sant’Agostino. Per cui la prima causa dell’ascensione al cielo è la virtù di Dio. Così dunque Cristo ascese al cielo per virtù propria: prima di tutto per la propria virtù divina; e in secondo luogo per la virtù dell’anima glorificata che muove il corpo come vuole» (ibidem).

Il motore principale è sempre la virtù divina, che è partecipata in qualche modo all’anima nella misura della sua visione beatifica, e l’anima la partecipa al corpo; ciò fa sì che, anche per virtù dell’umanità glorificata, nello stato della gloria, Cristo sia asceso al cielo: è asceso quindi anche per virtù propria nella propria natura umana glorificata, e “non solo” per virtù della sua natura divina.

Nella risposta alla seconda obiezione, Tommaso dice: «Sebbene salire in alto sia contro la natura del corpo umano secondo lo stato della vita presente [e lo sappiamo per esperienza: per salire in alto, dobbiamo prendere una mongolfiera, l’aereo, farci tirare su da una carrucola; non è insomma qualcosa che possiamo fare per desiderio della nostra anima], in cui il corpo non è del tutto soggetto allo spirito, tuttavia tale movimento non sarà né contro natura né violento per il corpo glorioso, la cui natura è del tutto soggetta allo spirito» (III, q. 57, a. 3, ad 2). Quindi, il fatto che il corpo vada laddove lo spirito vuole – compreso l’ascendere al cielo – è un effetto della gloria.

Tutti questi aspetti poi li ritroveremo quando parleremo della vita eterna, della risurrezione della carne per il principio della peculiare unità tra il Capo e il corpo, sebbene si debba mantenere la distinzione tra il Capo e le membra. Cioè, il Capo è persona divina che ha assunto la natura umana; c’è una natura divina propria del Capo, che le membra non hanno, sebbene vengano divinizzate. Questa distinzione va mantenuta, ma essa non deve togliere, non deve negare la reale compartecipazione di tutte le membra del corpo alla sorte del Capo, cioè di Cristo. La prossima volta vediamo gli ultimi tre articoli (4-6) della quæstio 57.



Ora di dottrina / 176 – Il video

L’Ascensione

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