L’abbaglio: un film sul Risorgimento che rispecchia il titolo
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Il duo comico Ficarra&Picone e l'onnipresente Toni Servillo in una pellicola storica costruita con tutti i "crismi" della solita narrazione risorgimentale. L'idea di partenza è buona. Il resto è infarcito di luoghi comuni.

Circola nelle sale il film che vuole essere storico L’abbaglio, con il duo comico Ficarra&Picone e l’onnipresente Toni Servillo. Il quale è, sì, bravo, ma risulta che non sia l’unico attore italiano a esserlo, e però qualcuno prima o poi dovrà spiegare al pubblico perché nel cinema italiano lavorano sempre gli stessi, gli happy few che si accaparrano tutti i protagonismi mentre gli altri nessuno sa neanche chi siano. Boh.
Un altro appunto di ordine generale: nei film italiani, a quanto pare, le scuole di recitazione insegnano che la drammaticità della battuta si accentua se questa viene detta sussurrando o mormorando. E che, quando invece va urlata, la stessa vada pronunciata a precipizio e in modo isterico. In ambedue i casi lo spettatore fa fatica a capire che diavolo stanno dicendo e deve chiedere al vicino di sedile, sperando che almeno lui abbia afferrato.
Il film L’abbaglio non fa, ahimè, eccezione e i dialoghi più pregnanti al fine della narrazione, anche in aperta campagna o in cima a un monte, sono in stile. Certo, se uno ha pazienza, nel corso della visione prima o poi capisce dove la storia voleva andare a parare. Ma è lo stesso nei vecchi film muti, perciò i cineasti nostrani si decidano: o dotano gli attori di microfoni invisibili (tipo quelli che usa la polizia con i suoi infiltrati) o si affidano al doppiaggio (che, certo, fa lievitare le spese, ma l’aggravio può utilmente essere evitato inserendo la clausola nel contratto).
E veniamo al film. L’idea di partenza è buona, chapeau: due arruffapopoli che fingono di arruolarsi nei Mille garibaldini solo per lucrare un viaggio gratis per la Sicilia. Ficarra e Picone si rivelano pienamente all’altezza; Servillo, anche se non ci fosse stato, nessuno se ne sarebbe accorto. Ma la storia narrata è, nella sua filosofia, la solita tiritera gramsciana: il Risorgimento come rivoluzione tradita.
Tutti i luoghi comuni propagandistici dell’epopea sono ribaditi: i siciliani che non vedevano l’ora di liberarsi della tirannia borbonica, le truppe napoletane peggio delle SS, le stesse che pur in schiacciante superiorità, fuggono davanti a quattro gatti in camicia rossa, la mafia rurale e baronale gattopardesca, il clero vigliacco e pusillanime, la monaca più carina che diventa tenutaria di bisca con bordello annesso etc.
E questo dopo che Carlo Alianello, storico e sceneggiatore di fino, nonché gli storici cosiddetti neoborbonici, da decenni non fanno che raccontare qualcosa di, almeno, più originale. E dopo che registi come Squitieri e Magni hanno pur fatto film come Briganti con la Cardinale e O’ Re con Giannini e Muti, che hanno affrontato il tema di quella guerra civile che fu il cosiddetto Risorgimento senza la solita retorica, ma sì, fascista. Oppure il recente (2021) Il mio corpo vi seppellirà di La Pàrola, con Margaret Madè: un Risorgimento al femminile e veramente alternativo alla solita manfrina.
Infine, si attende un regista che abbia il coraggio di spiegare perché, se tanto entusiasmo siciliano per Garibaldi vi fu, immediatamente e per i successivi dieci anni quegli stessi laudatori siano diventati “briganti” (banditen, come i tedeschi chiamavano i partigiani), e come mai gli stessi, per secoli, avessero tranquillamente sopportato la “tirannia” borbonica.
Infine, per quanto riguarda il ruolo dell’Inghilterra – assente ne L’abbaglio – che il re Carlo III è venuto a ricordarci parlando in italiano, consiglio la visione di Queimada (1969) di Pontecorvo, con Marlon Brando. Eh, di dare del “tiranno” al giovane Francesco II, figlio di una Beata, non se la sentirono nemmeno i Savoia, che dovettero optare per il ridicolo “Franceschiello”… Visto che parliamo di Sicilia, metto, come il Ciampa pirandelliano, “le mani avanti”: so che c’è sempre qualche cinefilo che poi mi spiega dottamente dove sbaglio nel giudizio. So bene che i nostri cineasti producono più per i festival che altro. Però i soldi li vogliono dagli spettatori semplici, come me.