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PRISMA

La lezione del Giappone

L’unica difesa efficace contro il terremoto è quella preventiva costituita dall’adeguamento antisismico di ogni elemento del costruito.

Prisma 14_03_2011
Secondo una definizione ormai classica, una catastrofe “naturale” è l’esito dell’impatto tra un  fenomeno fisico intenso e poco frequente da un lato, e dall’altro un certo grado di organizzazione politico-sociale. Tanto per fare un esempio, una mareggiata della stessa intensità nei Paesi Bassi provoca un tranquillo afflusso di turisti nei luoghi eminenti da cui si possono meglio ammirare le onde che s’infrangono contro le dighe litoranee. Nel Bangladesh provoca invece migliaia di morti tra i poverissimi che vivono in tuguri situati nelle aree golenali del grande delta fluviale ove si concentra il grosso degli abitanti del paese.

Con la sua magnitudo 8,9 il terremoto che ha colpito ieri il Giappone nord-orientale è uno dei maggiori che siano avvenuti da quando ci sono gli strumenti in grado di registrare esattamente i fenomeni sismici (quello verificatosi nel gennaio 2010 a Port-au-Prince fu di magnitudo 7,3). Mentre scriviamo si parla di alcune centinaia di morti e di danni qua e là molto notevoli. Si è dunque di fronte ad un’emergenza che sarebbe di certo da irresponsabili minimizzare. Tuttavia rispetto all’energia fisica dispiegatasi e alla densità demografica dell’area coinvolta i danni risultano comunque assai limitati. Si pensi in proposito al confronto con il maremoto del 2004, che causò 230 mila morti per pura disorganizzazione, ovvero soltanto perché via radio, via Tv, via Internet e così via non si diede agli abitanti delle aree costiere, verso cui le onde del maremoto stavano dirigendosi, un’allarme che si sarebbe potuto tranquillamente dare con varie ore di anticipo.

Al culmine di un sisma di grande intensità c’è un attimo in cui la terra diviene per così dire liquida, assume cioè l’assoluta plasticità dell’acqua. Ebbene, è questa la situazione in cui normalmente si trova quel particolare edificio che è la nave. Trasferendo dunque ritrovati dell’ingegneria navale nell’ingegneria edilizia si può giungere alla costruzione di edifici perfettamente antisismici. Il problema dunque non è tecnico, bensì politico, economico, sociale, e in ultima analisi culturale. Si tratta di giungere all’antisismicità assoluta non soltanto dei singoli edifici bensì dell’insieme: un muro di cinta malfatto o un palo della luce non adeguatamente fissato possono causare vittime non meno di crolli degli edifici principali. Ove la pubblica amministrazione è debole può accadere che gente più povera o in ogni caso imprevidente in modo irresponsabile non esiti a correre il rischio di insediarsi in zone pericolose costruendo su di esse edifici non  in grado di reggere un sisma o fenomeni analoghi. Non c’è bisogno di recarsi ad Haiti per rendersene conto: basta andare a fare un passeggiata in Campania sulle pendici del Vesuvio oppure in Sicilia su quelle dell’Etna.

Nel Giappone, il più sviluppato e densamente abitato dei paesi ad alto rischio sismico,  grazie sia alla forte amministrazione che a una sensibilità popolare diffusa in materia, tutto l’insieme del costruito – dalle case ai ponti, dalle strade alle fabbriche -- è in larghissima misura antisismico. Il terremoto di ieri ha però dimostrato che purtroppo non tutto è ancora antismico al massimo grado. Ciononostante ha confermato a contrariis che l’unica difesa efficace contro il terremoto è quella preventiva costituita dall’adeguamento antisismico di ogni elemento del costruito: si deve giungere cioè a una “rete” antisismica che non deve avere il minimo buco. Se questo è vero, e a mio avviso lo è certamente, se ci si volge a guardare quel terzo del territorio nazionale italiano che è a rischio di terremoti c’è da farsi venire i brividi. Salvo il Friuli, e non sempre e non dappertutto, altrove la situazione è tale per cui un sisma come quello verificatosi ieri in Giappone farebbe non qualche centinaio ma decine di migliaia di morti, e danni per riparare ai quali occorrerebbe qualche decennio.