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LETTERATURA

Khalil Gibran con Lazzaro al cospetto del Risorto

Un testo poco noto del famoso scrittore e poeta libanese, una trama intrigante, una domanda cogente. L'uomo vive sulla Terra la condizione dell'esilio, stuggendosi per un amore infinito che ha intravvisto
e che lo attende quando
tutto sarà compiuto.

Cultura 07_04_2012
La risurrezione di Lazzaro

 

Della Pasqua hanno scritto molti poeti, da Alessandro Manzoni a Giovanni Pascoli, da Ada Negri a Guido Gozzano. I loro testi sono per lo più sconosciuti, così come è sconosciuto ai più il dramma teatrale Lazzaro e il suo amore di Kahlil Gibran, tradotto in italiano solo pochi anni fa.

Gibran (1883-1931), scrittore e poeta, libanese cattolico di rito maronita, emigra nel 1912 a New York dove vive fino alla morte. Ampia è la sua produzione in inglese, ma l’autore conosce la celebrità per alcune opere come Il profeta, Il folle, Gesù Figlio dell’uomo, tradotte in molte lingue. Per Gibran «l’arte è sempre il tentativo di esprimere ciò che l’umanità ama e in tutte le epoche gli uomini amano la bellezza. Non tutto ciò che è bello è buono, ma la bontà è sempre bella».

«Kahlil Gibran aveva quarantasei anni quando l’atto unico Lazzaro e il suo amore fu letto a un pubblico ristretto. Gli eventi importanti della sua vita erano già accaduti […]. L’interesse mondiale per Il profeta andava crescendo, ma l’autore sapeva di essere prossimo a morire. La preoccupazione per il proprio ineluttabile destino è evidente in questo dramma in cui amoreggia con la morte e ne è infine completamente sedotto. Attraverso il personaggio biblico di Lazzaro, Gibran fa i conti con la propria fine imminente». Così si legge nell’Introduzione del cugino omonimo dell’autore Kahlil Gibran e di sua moglie Jean Gibran.

In Lazzaro e il suo amore, sei personaggi (Lazzaro, le sue sorelle Marta e Maria, la madre, il discepolo di Gesù Filippo, il Folle) si muovono su una scena angusta, il giardino della casa che il protagonista possiede a Betania nel tardo pomeriggio di lunedì, il giorno seguente la resurrezione di Gesù di Nazareth dal sepolcro. Nella prima parte dell’opera, Lazzaro è assente, evocato solo nei discorsi della madre e delle sorelle che riflettono sul suo cambiamento, dopo che è tornato in vita: trascorre gran parte del tempo lontano da casa sulle colline, la sua mente è come altrove, «i suoi occhi sono più profondi […]. È dolce, ma la sua dolcezza è riservata a qualcuno che non è di qui».

Nella seconda parte, Lazzaro, rientrato dalle colline, non vuole mangiare le lenticchie preparate con premura dalla madre e parla in maniera strana, tanto che solo Maria riesce talvolta a carpire il senso dei suoi discorsi. Lazzaro le confida così la nostalgia per l’amata che ha conosciuto quando è morto («Eravamo nello spazio, la mia amata ed io, ed eravamo lo spazio tutto. Eravamo nella luce ed eravamo tutta la luce») e si lamenta perché il distacco da quella felicità pura gli crea un senso di insoddisfazione: ormai fatica a vivere la realtà quotidiana («Ho veduto l’altro mondo che voi chiamate morte, e se fossi ancora lì sarei in pace. Ma ora che sono qui mi ribello contro quella che voi chiamate vita»). Implora il Maestro, morto crocifisso qualche giorno prima, di rispondere al suo tormento: «Fu giusto sacrificare me, un inutile, infelice […]? Chiunque tra i morti avrebbe potuto essere utile a glorificarti […]. O Gesù di Nazareth - Non posso maledirti! […] Vorrei benedirti».

Scoppiato, poi, in pianto, chiede perdono al Maestro e lo benedice. Nell’epilogo, giunge il discepolo Filippo ad annunciare la resurrezione di Gesù che ora si trova in Galilea. Lazzaro, finalmente, comprende il sacrificio del Maestro, morto e poi risorto, per la salvezza e per la redenzione degli uomini, capisce che tutto serve a glorificare il Padre. In preda all’esaltazione, Lazzaro parte a testimoniare la buona notizia finché non sarà crocifisso anche lui. Piccolo quadro, composto, raffinato e fondato sulle tre unità aristoteliche (spazio, tempo e azione), l’opera è dotata di una notevole drammaticità, non tanto per il rapido susseguirsi delle azioni, ma per la dinamicità della figura di Lazzaro, tutta protesa a ricongiungersi con la sua amata. La nostalgia per un bene lontano è il tema assiale del dramma.

In altri termini, l’esilio è la situazione che descrive, in realtà, la condizione dell’uomo sulla Terra in attesa della perfezione e della libertà totale nell’altra vita. La posizione che assume Lazzaro dopo che è stato resuscitato può, però, essere una fuga dalla realtà quotidiana nella prospettiva di vivere l’eternità dopo la morte. La Gloria di Dio e la nostra redenzione, infatti, iniziano già su questa Terra e Lazzaro lo comprende solo nell’epilogo. Maria dice a Lazzaro: «Credi e abbi fede, perché solo nella fede, che è la nostra più profonda conoscenza, si può trovare conforto». I sei personaggi, ben delineati nonostante la brevità del testo, interpretano differenti posizioni dell’uomo di fronte al Mistero. Il Folle, che non interagisce mai con le altre figure, ma commenta dall’esterno (assumendo una funzione analoga a quella del coro nella tragedia greca), riveste un ruolo fondamentale per l’interpretazione del testo: «l’amore […] è pervasivo della vita quotidiana di tutti gli uomini, eppure pochi tra essi sono in grado di scorgerlo, di percepirlo, di esperirlo» (Francesco Medici).

Il linguaggio, poetico e denso di metafore, riecheggia nelle parole nostalgiche di Lazzaro per l’amata i toni del Cantico dei cantici. Il personaggio di Lazzaro non coincide con «quello biblico, ma è piuttosto il frutto di varie suggestioni fuse insieme», fra questi «frammenti di testi apocrifi copti che ci sono stati tramandati» (Giovanni Medici) in cui il resuscitato fa «un esauriente racconto sull’aldilà». Sarebbe ingiusto ricercare una fedeltà al vangelo di Giovanni nel dramma di Gibran: la sensibilità artistica e umana del poeta scopre nell’animo di Lazzaro la condizione dell’uomo perennemente animato dal desiderio di felicità e di amore infiniti, tutto proteso al compimento delle promesse che sono nel cuore. Lazzaro comprende che finché è sulla Terra l’uomo vive la situazione del «già e non ancora», ovvero del centuplo quaggiù in attesa dell’eternità.