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UNIONE EUROPEA

Influenze straniere, armi, ambiente: la coalizione Ursula è spaccata

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Emergono crepe nella maggioranza che sostiene Ursula von der Leyen: dalla proposta sui registri delle influenze straniere all’approvvigionamento di armi, alle norme sulle pubblicità green ingannevoli. E la presidente della Commissione che fa? Attacca Orban per il gay pride vietato.

Politica 27_06_2025
Ursula von der Leyen, 24 giugno 2025 (Ap via LaPresse)

Le crepe della coalizione “Ursula” stanno venendo alla luce mentre la presidente von der Leyen tenta di sopravvivere ricompattando Popolari, Socialisti, Liberali e Verdi intorno al nemico Viktor Orban. Ma come si è arrivati all’ennesima, grave, presa di posizione pubblica di Ursula von der Leyen contro la decisione del governo ungherese di vietare il gay pride e come si è giunti alla presentazione di una mozione di sfiducia del Parlamento europeo contro la stessa von der Leyen?

L'eurodeputato rumeno Gheorghe Piperea (Conservatori e Riformisti Europei, ECR) ha raccolto abbastanza voti (79) per un voto di sfiducia al Parlamento europeo: la mozione è stata presentata ieri, 26 giugno, anche se pare che lo stesso gruppo ECR sia contrario. In ogni caso con la mozione si accusa la presidente della Commissione di assoluta mancanza di trasparenza e di voler evitare ogni processo di «verifica democratica equa sul suo comportamento», ha dichiarato Piperea al Financial Times.

Ovviamente la von der Leyen dovrebbe sopravvivere al voto, perché per sfiduciarla ci vorrebbero due terzi dei 720 eurodeputati (la von der Leyen solo un anno fa aveva ottenuto 401 voti). Ma le divisioni nella maggioranza “Ursula” si moltiplicano, proprio a partire dalle decisioni del Parlamento sulla trasparenza. In questo senso la cronaca di questi ultimi giorni ci consegna fatti eclatanti.

Sta avanzando (finalmente) la proposta che obbligherebbe tutti gli Stati membri a istituire i cosiddetti «registri delle influenze straniere» per monitorare le attività di lobbying provenienti da Paesi terzi, compresi i finanziamenti esteri ricevuti da Ong, think tank e organizzazioni di lobbying. Tutto ciò, si è ribadito lo scorso 25 giugno, al fine di proteggere i singoli Stati e l'UE da indebite influenze politiche e finanziarie dall'estero. La legislazione era stata presentata dalla Commissione nel 2023, per iniziativa della liberalsocialista Vera Jourová a seguito del Qatargate; poi la stessa Jourová aveva sospeso la discussione, a seguito della lettera di protesta delle Ong e lobby abortiste, Lgbt e delle sinistre parlamentari. Il testo della Commissione prevedeva che tutte le organizzazioni finanziate dall'estero avrebbero dovuto registrarsi presso un registro nazionale negli Stati membri in cui operano, rendicontando i fondi ricevuti dall'estero per svolgere compiti specifici. Il tutto sarebbe reso accessibile al pubblico per almeno quattro anni, mentre gli Stati membri sarebbero liberi di decidere le sanzioni penali appropriate.

Fa ben sperare che l'attuale interesse nel procedere speditamente in questa direzione venga dal gruppo PPE, oltreché dai gruppi conservatori (Patrioti, Conservatori e Sovranisti), nonché da una parte del partito liberale Renew, mentre S&D, Verdi e La Sinistra respingono la proposta, sostenendo che potrebbe essere utilizzata per attaccare qualsiasi Ong, come già denunciato nel 2023 da oltre duecento Ong, da Transparency International ad Amnesty International e persino da Open Society Foundations, loro ‘controllante’.

Il giorno precedente, 24 giugno, i membri della Commissione parlamentare per gli affari legali (Juri) avevano votato quasi all'unanimità (20 eurodeputati a favore e 3 astenuti su 23) per l’avvio di un'azione legale contro il Consiglio dell’UE presso la Corte di giustizia dell'UE (CGE), per aver aggirato illegalmente l’Eurocamera pur di accelerare l'adozione dell'iniziativa SAFE da 150 miliardi di euro, un programma della Commissione europea per l’approvvigionamento di armi con prestiti congiunti presentato come la spina dorsale del gigantesco piano ReArm Europe da 800 miliardi di euro. La decisione del 24 giugno richiede che sia la presidente del Parlamento, Roberta Metsola, a presentare, entro il prossimo 21 agosto, la denuncia alla Corte di giustizia dell’UE.

Nei giorni precedenti erano stati gli stessi membri della "coalizione Ursula" (i socialisti S&D, i liberali di Renew e i Verdi) a minacciare di togliere il loro sostegno vista la decisione della Commissione di ritirare la controversa legislazione anti-greenwashing (direttiva Green Claims), una nuova legge per porre fine alle dichiarazioni pubblicitarie ingannevoli o false sul rispetto dell’ambiente da parte delle aziende. «Se la Commissione ritira il testo, noi di Renew consideriamo questo atto una seria minaccia per la piattaforma della maggioranza europeista», ha dichiarato Valerie Hayer venerdì 20 giugno. A lei si è unita la presidente di S&D, Iratxe García. La Commissione aveva invece annunciato di ritirare la normativa, come confermato dalla presidenza polacca del Consiglio dell'UE, proprio lo scorso 20 giugno, a seguito delle lettere contrarie di PPE, Conservatori e Patrioti, moltiplicando i dissapori e le minacce di Socialisti, Verdi e Liberali.

Tutto ciò era stato preceduto, il 19 giugno, dall’approvazione dei capigruppo politici del Parlamento europeo dell'iniziativa dei Conservatori e Patrioti di formare uno speciale "Gruppo di lavoro di controllo" all'interno della Commissione per il controllo dei bilanci (CONT), per indagare sul cosiddetto Timmermans Gate, ovvero lo scandalo che coinvolge le Ong per il clima finanziate dall'UE per azioni di lobbying a favore del  Green Deal. Certo, una soluzione di compromesso rispetto alle richieste iniziali di avere una vera e propria commissione di inchiesta, ma una mediazione necessaria per unire le forze di PPE, Conservatori e Patrioti e superare le interessate obiezioni di Socialisti, Verdi e Sinistre. La crisi reale della maggioranza “Ursula”, sulla quale si erano arroccati la von der Leyen e il PPE, è una novità interessante e forse prodromica di un futuro più aperto al centrodestra.

Tuttavia, per ricompattare la maggioranza, la von der Leyen, invece di prendere atto del nuovo scenario politico e di governare per il bene comune, attizza la polemica contro il “nemico dei valori europei”, Viktor Orban, e il divieto, a tutela dell’infanzia e della decenza, di celebrare il gay pride a Budapest. Una palese violazione delle competenze nazionali da parte della Commissione, a cui Orban ha giustamente risposto per le rime: «Esorto la Commissione europea ad astenersi dall'interferire nelle attività di applicazione della legge degli Stati membri, in cui non ha alcun ruolo da svolgere (…), a concentrare i suoi sforzi sulle sfide più urgenti che l'Unione europea deve affrontare (…), come la crisi energetica e l'erosione della competitività europea». Von der Leyen si dimostri all'altezza della situazione, rinunci al suo mandato e il PPE l’accompagni.