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stravaganze

In nome dei poveri Cupich vagheggia una povera liturgia

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Per l'arcivescovo di Chicago Dilexi te getta una luce "equa e solidale" sulla riforma liturgica. Nessun riscontro nel testo papale né in quelli conciliari, ciò che conta sono i desiderata del cardinale in cui il solo ridotto in miseria è il culto divino.

Editoriali 28_10_2025
IMAGOECONOMICA VIA CARDINAL CUPICH

Nessuna pretesa di finezza di contenuti e di attenzione alle sfumature, ma almeno la decenza di non attribuire ad altri quanto essi non hanno mai detto, solo per sdoganare il proprio pensiero. È una riflessione “un tanto al chilo” quella che il cardinale Blase Cupich ha di recente consegnato a Vatican News, a commento dell’esortazione apostolica Dilexi te.

Stando all’arcivescovo di Chicago, l’esortazione di papa Leone XIV, offrirebbe una nuova luce sulla riforma liturgica voluta dai padri conciliari, ossia una liturgia che avrebbe dovuto presentare «al mondo una Chiesa non definita dagli orpelli del mondo, bensì caratterizzata da sobrietà e semplicità, consentendole di parlare alla gente di questo tempo in un modo che assomigliasse molto di più al Signore e permettendole di dedicarsi in modo nuovo alla missione di proclamare la buona novella ai poveri».
E così la riforma, traendo beneficio dalla «ricerca accademica sulle risorse liturgiche», si sarebbe sbarazzata degli «adattamenti, introdotti nel tempo, che incorporavano elementi provenienti dalle corti imperiali e reali», permettendo così alla Chiesa di poter parlare da povera ai poveri. «Con il recupero dell’antica sobrietà del rito romano, l’Eucaristia torna di nuovo a essere il luogo di pace autentica e di solidarietà con i poveri in un mondo spezzato», conclude Sua Eminenza.

Tralasciando la «ricerca accademica», che non è esente dall’aver inanellato una serie di sfondoni storici sulla sobrietà della liturgia delle origini (si vedano i supplementi della Domenica, che stiamo dedicando all’argomento), la narrazione di Cupich potrebbe forse apparire affascinante a qualcuno, ma c’è un piccolo problema di fondo, ossia che il cardinale ha un tantino esagerato nell’attribuire i propri desiderata ai padri conciliari. Non che già sessant’anni fa mancassero i sostenitori di una povera liturgia per i poveri poveri (non è una ripetizione), ma di certo non è quello che è stato approvato dal Concilio nella costituzione sulla liturgia. La quale dei poveri non parla proprio, e nemmeno di sobrietà, ma di «nobile semplicità», che permetta ai segni di essere trasparenti e più facilmente comprensibili ai fedeli, così che «non abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni» (SC 34). Spiegazioni che, invece, farciscono le celebrazioni Novus Ordo, frastornando le orecchie dei fedeli (loro sì, poveri!) con una pletora di parole, commenti, didascalie e riflessioni. Usque ad nauseam.

Il Concilio, poi, per la cronaca, ha anche indicato alcuni confini entro i quali la riforma si sarebbe dovuta mantenere, come la conservazione della lingua latina, che non doveva essere sostituita dalle lingue nazionali, ma affiancata in alcune parti dei vari riti (cf. SC 36); oppure come l’affermazione del canto gregoriano come canto proprio del rito romano (cf. SC 116). Da nessuna parte questa «nobile semplicità» è stata intesa come lo stravolgimento, per esempio, del calendario liturgico, dal quale sono stati decurtati tempi liturgici molto antichi, come la Settuagesima o le Quattro Tempora; o come il rifacimento ex novo dei riti d’offertorio.

Curioso poi che, in nome della “sobrietà”, si sia toccata proprio l’unicità del Canone romano, per aggiungere dapprima altre tre Preghiere Eucaristiche, e poi altre sei (due “della Riconciliazione” e quattro “per varie necessità”), introducendo così una “varietà” sconosciuta anche a tutti gli altri riti liturgici. Nemmeno si comprende cosa abbiano a che fare con la sobrietà lo stravolgimento del complesso delle orazioni della Messa o l’introduzione di preghiere dei fedeli tanto numerose quante sono le menti che le concepiscono. Tutte modifiche che fanno sorgere il sospetto che la sobrietà sia stato un tutt’altro che nobile pretesto.

Ad ogni modo, la «nobile semplicità» dei riti c’entra con una liturgia solidale con i poveri come i cavoli a merenda. Che l’obiettivo del Concilio, nel promuovere la riforma liturgica, fosse quello di realizzare una non meglio precisata liturgia per i poveri, è quanto di più arbitrario si possa pensare. Ma si sa, è diventato sport ecclesiale quello di attribuire al Concilio qualsiasi stravaganza teologica e liturgica passi per la testa dei “periti”, le cui fantasie, purtroppo, sembrano non perire mai.

A ben vedere, nemmeno Dilexi te afferma quello che Cupich desidera. Il n. 84, citato dal cardinale, si riferisce all’emergere, all’epoca del Concilio, soprattutto nelle riflessioni dell’allora arcivescovo di Bologna, il cardinale Giacomo Lercaro, di «una nuova forma ecclesiale, più semplice e sobria, coinvolgente l’intero popolo di Dio e la sua figura storica. Una Chiesa più simile al suo Signore che alle potenze mondane...». Nell’esortazione apostolica, della liturgia, nemmeno si parla, se non di sfuggita al n. 40. Però scrivere che Leone XIV ha affermato che il Concilio voleva una liturgia sobria per una Chiesa dei poveri, a pochi giorni dal pellegrinaggio Summorum Pontificum, che aveva previsto il “rivale” cardinale Burke presiedere la Messa degli “orpelli del mondo” in San Pietro, e pure con l’autorizzazione del Papa, era più che doveroso; per mettere subito in chiaro che Burke è a prescindere contro il Papa e la Messa in rito antico è contro il Concilio.

Se poi qualcuno si ostina a ricercare quali siano i fondamenti di queste affermazioni, anziché credere sulla parola all’arcivescovo di Chicago, allora non ha ancora capito che siamo nel tempo dello spirito che dà vita, non della lettera che uccide. Questione di ermeneutica.



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