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UN PENSIERO FECONDO

Il filosofo Wojtyla e il suo stupore di fronte all’uomo

Prima nei suoi saggi filosofici e poi nei documenti pontifici, Karol Wojtyla ha scritto più volte sul valore dell’uomo, fatto «a immagine e somiglianza di Dio». Nella sua visione antropologica c’è spazio per il confronto con altri filosofi, come in “Persona e Atto” del 1969. Ma nel grande santo polacco è sempre chiaro, come scrisse nella sua prima enciclica, che solo Cristo Redentore «rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso».

Ecclesia 22_10_2021

Per comprendere la filosofia di Karol Wojtyla è necessario partire dall’uomo. L’importanza che l’essere umano ricopriva nella mente e nell’anima di Giovanni Paolo II ci dà la cartina tornasole di quanto il pensiero antropologico nel filosofo polacco fosse fondamentale. Ma perché l’uomo è il nucleo di tutto il suo pensiero? Ovviamente il discorso si amplierà per raggiungere Dio, ma la partenza si può attribuire alla sua conoscenza e studio dell’umanità. Il valore dell’uomo, fatto «a immagine e somiglianza di Dio» (importante ricordarlo), è stato più volte affrontato da Wojtyla come filosofo per poi essere sviscerato nel pontificato di Giovanni Paolo II nei suoi documenti pontifici che - in molte occasioni - potrebbero anche essere considerati quasi un “prolungamento” dei suoi precedenti saggi filosofici. Saggi che possono avere una sorta di comun denominatore: l’antropologia.

Aggirarsi tra le sue pagine scritte non è opera semplice, bisogna ammetterlo. Complessa la monumentale opera wojtyliana: per numero e per temi, per struttura e contenuto. Cerchiamo, allora, a volo d’angelo, di sottolineare alcuni punti fondamentali. Partire a ritroso potrebbe essere un modo per descrivere il suo pensiero. Prendiamo in esame la sua prima enciclica, Redemptor Hominis, del 1979. Scrive Giovanni Paolo II:

L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente. E perciò appunto Cristo Redentore (…) rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso. Questa è - se così è lecito esprimersi - la dimensione umana del mistero della Redenzione. In questa dimensione l’uomo ritrova la grandezza, la dignità e il valore propri della sua umanità. Nel mistero della Redenzione l’uomo diviene nuovamente «espresso» e, in qualche modo, è nuovamente creato. Egli è nuovamente creato! (RH, 10)

Un po’ lunga la citazione, vero. Ma spezzettarla sarebbe come tradire l’autore. Un primo elemento, allora, che va sottolineato è questa consequenzialità di concetti nel filosofo Wojtyla, come un fiume senza sosta di pensieri, che arrivano a una conclusione ben definita.

Parlando di valore dell’uomo, dobbiamo necessariamente citare un altro suo testo fondamentale, che potremmo definire una summa del suo pensiero. È il saggio Persona e Atto del 1969. Una novità di questo saggio, rispetto al panorama filosofico contemporaneo, va evidenziata prima di tutto: il confronto senza pregiudizi con il pensiero moderno e contemporaneo. Si trattano, infatti, in queste dense pagine la fenomenologia e addirittura la psicanalisi. Il pensatore Wojtyla non ignora gli altri filosofi né si chiude in una situazione di incomunicabilità, anche se - al contempo - non rinuncia al proprio patrimonio culturale e filosofico. Cioè Cristo, in una sola parola. Wojtyla cerca sinceramente di mettere in dialogo la tradizione aristotelico-tomista con le istanze della filosofia contemporanea, specialmente la fenomenologia, il personalismo, il pensiero dialogico. L’introduzione al testo ci fa comprendere subito la sua vivacità di pensiero:

Tuttavia, quando si parla dell’esperienza dell’uomo, si vuol intendere anzitutto che l’uomo si accosta a sé, e con sé quindi instaura un contatto conoscitivo. Questo contatto ha carattere sperimentale, in qualche modo continuo, e si attua ogni volta che viene instaurato. Esso infatti non dura ininterrottamente, neanche quando si riferisce all’«io» proprio: sul piano della coscienza s’interrompe almeno durante il sonno. Ciò nonostante, l’uomo è sempre se stesso, e quindi anche l’esperienza di sé in qualche modo perdura. Vi sono in essa i momenti più nitidi, oltre ad una serie di momenti meno nitidi che tuttavia costituiscono una specifica totalità di esperienze di quell’uomo che io sono. Essa è composta di molteplici esperienze e costituisce in un certo modo la loro somma o, meglio, la loro risultante.

Da questo brano si intuisce come la filosofia di Wojtyla non nasca da una riflessione spinta da dotte discussioni accademiche. Bensì parte dall’esperienza. Quella soprattutto umana. Una sorta di metodo che affiancherà il filosofo polacco anche nel suo pontificato. La persona, dunque, al centro del suo pensiero.  Se manca una comprensione adeguata della persona, i dibattiti etici non possono condurre ad alcun risultato costruttivo e vero. Diventano solo elucubrazioni mentali non fondate sulla vita vera. E un “fedele cristiano”, come Wojtyla, ovviamente non può non fare a meno della verità.

Nei suoi scritti è evidente l’influenza di una delle filosofe più importanti del Novecento: Edith Stein. Tra il suo pensiero e quello di Wojtyla molti saranno i punti in comune: a partire dal loro studio della fenomenologia di Edmund Husserl e di Max Scheler. Ma c’è un maestro all’apice per entrambi: è san Giovanni della Croce, di cui il giovane studente Wojtyla scrisse nella sua tesi di laurea, tra l’altro. Sempre Wojtyla, da papa, nel 2003, scriverà nel suo poema Trittico Romano. Meditazioni (2003): «Non si stupisce una fiumara scendente/ e silenziosamente discendono i boschi/ al ritmo del torrente/ però un umano si meraviglia./ Il varco che un mondo trapassa attraverso l’uomo/ è dello stupore la soglia». La meraviglia, lo stupore caratteri fondamentali della sua ricerca filosofica. Senza questi, sarebbe vana ogni riflessione sul suo pensiero filosofico. Nello stupore e nella meraviglia davanti all’uomo va ricercata la sua vocazione filosofica, poetica e sacerdotale.

In Persona e Atto scriveva ancora queste parole che rappresentano l’humus della sua indagine:

Il nostro studio nasce dalla meraviglia di fronte all’essere umano, che genera, come è noto, il primo impulso conoscitivo. Sembra che tale meraviglia - che non è ammirazione, anche se ha in sé qualcosa di essa - sia all’origine di questo studio. La meraviglia come funzione dell’intelletto si manifesta in una serie di risposte o di soluzioni. In tal modo non solo viene sviluppato il processo di pensare sull’uomo, ma soddisfa anche una certa esigenza dell’esistenza umana. L’uomo non può perdere il posto che gli è proprio in quel mondo che egli stesso ha configurato.