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Fuori schema
a cura di Andrea Zambrano

LA MORTE DI MARADONA

Il bello non si macchia

Fuori schema 26_11_2020

«Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è quaggiù sulla terra». Al di là della prosopopea corrente e ridicola di chi abusa del termine “Dio del calcio”, “Dio del pallone”, Diego Armando Maradona lascia un senso di rotto, ma bello e malinconico. Del suo straordinario talento infranto sul tavolo di cristallo dei suoi tremendi vizi ha già scritto Tommaso Scandroglio. Non ci resta che chiederci perché la notizia della sua morte ci colpisce come una ferita della quale comunque ci faremo una ragione.

In fondo le sue gesta appartenevano ormai al passato, sempre più scarne di testimoni oculari e consegnate alle dozzinali gallery di skills su Youtube. Che bisogno c’è?

Quando Maradona iniziava il suo lento e bulimico ritiro molti di noi erano ancora bambini e ora sono già uomini che vanno oltre i 40, il suo secondo tempo era già finito e oggi stava per calare il sipario anche sul terzo tempo, quello della polvere che copre come pece i ricordi.

Però può capitare che i ricordi si appiccichino alle tappe della nostra vita e rimangano attaccati come le figurine Panini all’album senza poterle più staccare se non strappandole.

Quel giorno di aprile ‘91 in cui Diego fuggì da Napoli ferito e drogato come un re in esilio, io scoprii il giornalismo. Diego scappava da descamisado, vittima e carnefice allo stesso tempo, e io, 14enne infatuato lessi un commento di Paolo Granzotto sul Giornale che non avrei più scordato. Iniziava così: «Sopravvivremo anche alla dipartita di Maradona». Fu per me una rivelazione: conobbi l’arte del giornalismo, la parola controcorrente, lo sguardo alternativo sulle cose, la compassione sull’uomo e il giudizio critico sulle sue opere.

Ritagliai quel pezzo di giornale e lo conservai per tanto tempo. Diventato giornalista, compresi che quell’articolo mi aveva acceso una luce: si può guardare un fatto vivendolo anche con passione, ma senza abbracciarlo, senza lasciarsi travolgere. Ecco perché diventai cronista, tutto mi fu chiaro. La mia storia è passata anche da lì e questo genera nostalgia.      

Dunque, perché questo senso di malinconia? Forse perché Dieguito è un simbolo di gioventù che se ne va? No, o meglio, non basta, perché oggi i 14enni hanno fermato i loro smartphone per chiedersi chi fosse mai questo pibe de oro. E ne sono rimasti estasiati.

E allora la spiegazione è nel Bello. Il bello visto e goduto, il bello sognato e posseduto, la volè di Napoli-Milan, la punizione in area contro la Juve, il palleggio distratto prima della finale Uefa musicato con life is life, la cavalcata – ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta gracias a Dios por el fútbol, por estas lágrimas ¿de qué planeta viniste? - che lo consacrò come aquilone cosmico sono e resteranno bellezza.

E la bellezza è eterna. È pura. È cosmos che si fa largo nel caos. E abbiamo bisogno di questo bello per alimentare il sogno di un eternità che si fa promessa, che si fa patria. La bellezza è l’impronta fugace che marca il nostro passaggio sulla terra, ciò che resterà di noi. Ci serve per orientarci, ne abbiamo bisogno. E la prendiamo anche se la intravediamo in una palla che rotola. Perchè è l’orma di Dio che rimane mentre tutto intorno rotola verso l’abisso. 

Come la sua vita. Lui, el diez de cuero blanco lo intuiva senza saperlo.

Una frase tra le tante sciocchezze dette fuori dal campo da Maradona lo caratterizzava e ce lo faceva diventare umano e simpatico. Ed è quello che potrebbe essere il suo epitaffio e che mi piace scegliere come congedo di una vita dannata trascorsa a cercare un ordine che solo sul campo da calcio è riuscito a trovare. «Yo me equivoque y pague, pero la pelota no se mancha (Ho sbagliato, ho pagato, ma la palla non si macchia)». In quella frase pronunciata durante la sua despedida, il suo addio al calcio pronunciato in una Bombonera piena alla follia c’è la sconfitta dell’uomo che non riuscì mai ad essere veramente, ma anche l’orgoglio del talento che anche arrestato si giustificò dicendo di aver dato soltanto un po’ di gioia alla sua gente.

Quel bello non si è macchiato con il suo sfacelo umano. 

Maradona indossava la sua ultima camiseta da giocatore, quella del Boca Juniors, ed è con questa maglietta, acquistata l’anno prima, nel 2000, che vorrei ricordarlo. La comprammo io e mio fratello alla cancha arrivandoci non dal turistico Caminito ma da una strada secondaria. Era una zona malfamata, sarebbe stato meglio seguire il percorso consigliato. Una guardia ci chiese se fosse proprio necessario andare alla Bombonera.

Ripensando a quel giorno, posso dire di sì. È bella, evoca i simboli amati dal popolo, la birra Quilmes e Diego, gloria umana ed effimera e da quel Xeneizes in basso, che richiama i genovesi, primi colonizzatori della Boca, emana qualcosa che è mio: Genova, lo stesso porto da cui un giorno partirono nonno e papà per approdare sulle rive dei Riachuelo. Lo stesso cui tornarono molti anni dopo per un viaggio di ritorno in Italia che Diego non ha potuto né voluto fare per l’ultima volta.

Perché ormai tutto il bello di cui era stato capace ce lo aveva già donato. Aveva ragione Granzotto 30 anni fa: sopravvivremo anche alla dipartita di Maradona, però che bello averti visto giocare.