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«I politici cattolici pensino a ciò che conta»

L'arcivescovo di Trieste, Crepaldi, a La Bussola Quotidiana: «La 194 e la 40 non sono leggi giuste, non si può rinunciare alla loro revisione».

Attualità 13_12_2010
CAMERA DEPUTATI

«Non è il 25 luglio anche se l’appuntamento di domani è uno snodo politicamente importante», ma il dato preoccupante è che «ci troviamo ancora una volta davanti ad una possibile spaccatura dei cattolici in politica. Per questo mi auguro che i deputati e i senatori cattolici si facciano orientare dai principi non negoziabili». A vedere così il voto in Parlamento sulla mozione di sfiducia contro il governo Berlusconi è monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste e presidente dell’Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuan per la Dottrina sociale. Crepaldi, che fino all’ottobre 2009 è stato segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace e in questa posizione ha curato la redazione del Compendio di Dottrina Sociale della Chiesa, ha anche scritto recentemente il libro Il cattolico in politica – Breve manuale per la ripresa (editore Cantagalli). Per questo è l’interlocutore ideale per cercare di fare chiarezza sul momento politico attuale e il compito dei cattolici.

Monsignor Crepaldi, nella grande confusione politica attuale, quali criteri devono guidare i cattolici nel giudicare la situazione?

Per i cattolici la politica non è mai solo politica. Essi vedono nel gioco politico, spesso così confuso e dalla vista corta, la presenza di significati assoluti. Nella politica si giocano anche valori eterni. Per questo essa è una cosa tremendamente seria, nonostante i toni da avanspettacolo che talvolta assume. Essa ha a che fare anche con la salvezza, perché l’organizzazione di questo mondo non è indipendente dalla vocazione integrale dell’uomo.
Credo che il criterio primario sia, come ci ripete Benedetto XVI, di aprire nel mondo un posto per Dio o, come disse Giovanni Paolo II il 22 ottobre 1978, di aprire le porte a Cristo, aprire «i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo». Il bene vero dell’uomo, anche di ordine naturale, non può che venire da lì. Da un punto di vista strettamente politico questo comporta difendere e promuovere politicamente i cosiddetti “principi non negoziabili”. Il loro senso è triplice. Prima di tutto essi costituiscono in se stessi una difesa della trascendente dignità della persona; secondariamente essi indicano un vasto programma politico trasversale ai vari problemi sociali; in terzo luogo essi rimandano la politica alla sua fondazione trascendente. Credo che nessun altro criterio, seppure legittimo, dovrebbe essere anteposto a questo. 


Nelle ultime settimane più volte è stato sollevato il problema morale, riferito ai comportamenti di questo o quel politico. Ma dal punto di vista della Dottrina sociale, cosa vuol dire un atteggiamento morale in politica?

Il problema del comportamento morale si pone a due livelli. Prima di tutto c’è il livello strategico della prospettiva culturale in cui l’uomo politico si colloca, del programma e della  storia del suo partito. Il programma del partito prevede la negazione dei principi non negoziabili? E la cultura di riferimento? E la sua storia?
Poi c’è il livello dei comportamenti personali di “morale privata”, come potremmo anche dire. Naturalmente, l’ideale sarebbe che il comportamento fosse moralmente accettabile e coerente sia nel primo che nel secondo senso. Nel caso tale coerenza non ci fosse, va tenuto presente che rimane preferibile che ci sia la moralità nel primo senso. Tra un politico che fa pessime leggi, per esempio contrarie  alla tutela della famiglia e della vita, ma che è sul piano del comportamento individuale integro ed un uomo politico che non lo sia ma che faccia buone leggi rimane preferibile il secondo.

Vuol dire che l’immoralità privata non ha conseguenze pubbliche?
I comportamenti negativi di “morale privata” non devono mai essere proposti come esempi da seguire. Ma bisogna sempre guardarsi dal “moralismo”, atteggiamento che può avere molte varianti: stracciarsi le vesti per un comportamento immorale dell’avversario politico sul piano privato dopo aver seminato per anni una cultura del relativismo morale; approfittare della propria posizione pubblica per esaltare pubblicamente i propri comportamenti immorali; esigere dall’avversario, con rigore inquisitorio, una coerenza piena tra morale privata e morale pubblica, dopo aver teorizzato e promosso il divorzio, l’aborto o le nuove “forme” di famiglia che senz’altro non sono chiari esempi di morale pubblica; restringere il concetto di morale pubblica solo ad alcuni ambiti, come per esempio la corruzione, sottraendone altri, come per esempio la morale familiare o la violenza sull’embrione. Spesso, oggi, a lanciare giudizi morali sono personaggi politici che vorrebbero distribuire la pillola abortiva alle minorenni, liberalizzare l’uso della droga o parificare le coppie omosessuali alla famiglia.   


Riguardo alla presenza cattolica, a un estremo si cerca di espellere il fatto religioso dalla politica, all’altro si ha a volte l’impressione che il fatto religioso sia ridotto all’intervento dei vescovi su questo o quel tema. Qual è invece il corretto rapporto tra fede e politica?

Teniamo innanzitutto presente che è dovere dei vescovi intervenire anche sulle questioni politiche, quando queste abbiano una ripercussione sul bene delle anime, a protezione del creato, della trascendente dignità della persona e dei diritti della religione cristiana. L’intervento dei vescovi “su questo o quel tema” non va inteso come una forma di “gentilonismo”, una contrattazione diretta con il sistema politico per avere, in cambio dell’appoggio, assicurazioni su presunti “interessi cattolici”. Come non è ingerenza, così non è nemmeno trattativa politica. Sono interventi non a difesa di interessi cattolici ma per il bene di tutti. Anche quando i vescovi chiedono il rispetto per il ruolo pubblico della religione non lo fanno per difendere posizioni di rendita o corporative ma perché ritengono che anche la libertà della religione cristiana sia un bene per tutti. Si tratta di ribadire la necessità della luce cristiana per la costruzione della società degli uomini e di “purificare” la politica quando questa si discosti dal vero bene dell’uomo. La religione cristiana non può rinunciare a questa sua “pretesa”. Obbligarla a farlo significherebbe chiederle di rinunciare a se stessa e non sarebbe vera laicità.
     

Vita, famiglia, libertà di educazione: questi sono i princìpi non negoziabili che devono unire tutti i politici che si dichiarano cattolici, presenti in diversi schieramenti. Ma passando al concreto, quali sono le priorità in Italia su cui ci si dovrebbe concentrare?

Sul senso da attribuire ai principi non negoziabili ho già detto qualcosa rispondendo ad una precedente domanda. Per quanto riguarda l’Italia è mia convinzione che una grande rivoluzione sarebbe la creazione di un sistema scolastico veramente paritario, concedendo alle famiglie la reale possibilità di scegliere la scuola per i propri figli e ai soggetti della società civile di esprimere la propria vocazione educativa. Una simile riforma sprigionerebbe energie partecipative ed educative formidabili e romperebbe tutta una serie di corporazioni materiali e ideologiche che tengono ingessato questo Paese.
C’è poi l’agenda politica sulla bioetica. Qui bisogna stare molto attenti perché sono in gioco valori enormi e lo stesso nostro futuro. Bisognerà, credo, che i cattolici siano più chiari: nell’opinione pubblica circola l’idea che la 194 sia una legge cara ai cattolici dato che questi ne chiedono insistentemente la realizzazione piena, come anche molti pensano che la legge 40 sulla fecondazione assistita sia una legge cattolica perché i cattolici hanno sostenuto un referendum per il suo mantenimento. Su questi aspetti bisogna fare chiarezza e far capire che chiedere l’applicazione di una legge nei punti in cui essa può tutelare la vita non significa condividere quella legge né gettare la spugna per una sua radicale revisione. Le battaglie non si fanno mai a metà, non possiamo dare una mano agli altri a sbagliare su punti così importanti e il bene comune non è il minor male comune.
Poi c’è la difesa della famiglia, per la quale sono importantissime le provvidenze di un nuovo regime fiscale, ma ancor prima va mantenuta la difesa giuridica della famiglia e, prima ancora, la sua promozione culturale. Dove viene promossa oggi la famiglia? Non nei media e non nella scuola pubblica.
 
Domani, 14 dicembre, ci sarà un voto importante in Parlamento: lei cosa si augura o cosa si aspetta?

Non è compito di un vescovo entrare in queste faccende di cabotaggio politico. Io mi limiterei a dire solo due cose. La prima è che mi sembra che non siamo davanti a nessun 4 luglio, 14 luglio o 25 luglio, anche se concordo che l’appuntamento è uno snodo politicamente importante, dato che ormai “galleggiamo” da molto tempo. La seconda è che ci troviamo ancora una volta davanti ad una possibile spaccatura dei cattolici in politica. Per questo mi auguro che i deputati e i senatori cattolici si facciano orientare dai principi che ho sopra esposto.