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CINA

Hong Kong, la protesta torna in piazza

La protesta di Hong Kong si è improvvisamente rivitalizzata, dopo che il governo ha interrotto il dialogo con le associazioni di studenti. La reazione della polizia, per ora discreta, potrebbe essere più violenta rispetto a quella di due settimane fa. Il cardinal Zen, vescovo emerito di Hong Kong, invita gli studenti alla prudenza.

Esteri 12_10_2014
Gli ombrelli simbolo della rivoluzione

A Hong Kong la protesta si è rivitalizzata all’improvviso. Mentre nel corso della settimana la presenza di studenti e manifestanti di ogni età era andata assottigliandosi, da tre giorni le piazze si sono riempite di nuovo di decine di migliaia di pacifici manifestanti.

L’improvvisa svolta è dovuta all’atteggiamento del governo di Hong Kong, che aveva promesso dialogo ma solo con una delle tre organizzazioni della protesta, la Federazione degli Studenti, quella ufficiale, lasciando fuori Scholarship e Occupy Central. Il dialogo, come era prevedibile, non è andato a buon fine e il governatore Leun Chun-ying l’ha interrotto unilateralmente giovedì scorso. Le associazioni studentesche hanno allora annunciato di “occupare ogni centimetro delle strade”. E così sta accadendo, puntualmente. «Abbiamo portato le tende - per mostrare tutta la nostra determinazione, siamo preparati per una occupazione di lungo periodo», dichiara Benny Tai, uno dei leader del movimento. Già nella notte fra venerdì e sabato, Harcourt Road, una delle principali arterie del distretto dell’Ammiragliato, era di nuovo piena di manifestanti.

La “Rivoluzione degli Ombrelli”, come è stata ribattezzata per le continue piogge di queste settimane, entra oggi nel suo 15mo giorno e non sembra placarsi. Nata per chiedere il rispetto della Basic Law, la costituzione di Hong Kong che promette il suffragio universale per il 2017, la protesta si sta concentrando ora sulla richiesta di dimissioni del governatore. Se domenica il governo non accetterà di riprendere i colloqui, dichiara il leader della Federazione degli Studenti Alex Chow, «costringeremo il governo ad affrontare il popolo». Nell’area di Mong Kok, presidiata dal movimento Occupy Central, sono presenti poche centinaia di persone: questa tornata di proteste, evidentemente, è voluta soprattutto dagli studenti, meno dagli adulti. Fra questi ultimi, un novantenne intervistato dall’americana Radio Free Asia, dichiara di voler vigilare tutti i giorni sul luogo della protesta, nonostante la sua tarda età «La mia intera famiglia fu spazzata via dal Partito Comunista, dalle sue politiche quando non direttamente. Il Partito Comunista ha ucciso innumerevoli persone», ora dunque non ha alcuna fiducia nelle promesse di dialogo che arrivano da Pechino: «Non abbiamo alcun dialogo, il governo non ascolterà le nostre richieste per il suffragio universale».

Finora la presenza della polizia è abbastanza discreta, ma si teme che, a partire da oggi, la repressione diventi più massiccia. Il governatore Leun Chun-ying si è recato nella Cina continentale, al forum regionale di Guangzhou. Potrebbe essere questa l’occasione in cui prenderà una decisione su come affrontare la situazione, previa consultazione con i vertici di Pechino. La leadership della Cina Popolare esprime calma estrema. Li Keqiang, il primo ministro, in visita ufficiale in Germania, ritiene che la “saggezza popolare” degli abitanti di Hong Kong ripristinerà la calma e auspica la preservazione del principio dei “Due sistemi, uno Stato”, che regola l’autonomia dell’ex colonia britannica. Pechino, comunque, non vuole ingerenze, né suggerimenti dall’esterno. Il governo ha duramente condannato un rapporto del Congresso Usa che chiede all’amministrazione di monitorare le proteste di Hong Kong. E non ha neppure replicato al governo di Taiwan (che non riconosce), l’unico che chiede esplicitamente di concedere la democrazia a Hong Kong.

In piazza, assieme agli studenti più giovani, c’è anche l’anziano vescovo emerito di Hong Kong, il cardinale Joseph Zen, 82 anni suonati, ma dotato ancora di una grande energia. Monsignor Zen è stato protagonista di tutte le fasi della protesta, sin dallo scorso giugno, quando aveva intrapreso una marcia di sostegno al referendum che chiedeva il suffragio universale. In questi giorni può sembrare una marcia indietro la sua richiesta di sgomberare i sit in e il suo appello agli studenti di tornare a scuola. Ma il cardinale Zen non si è affatto convertito alla causa della “normalizzazione” voluta da Pechino. Semplicemente teme che, con un’offerta di dialogo parziale e poi con la sua cancellazione, il regime cinese abbia teso una trappola. Abbia, cioè, cercato e trovato un’occasione per scatenare una repressione più dura. «Più passa il tempo – dichiarava ad Asia News, già il 6 ottobre scorso - e più si dà adito a queste mafie di attaccarci ancora. E poi la gente è stanca, i figli devono andare a scuola. Ci ritiriamo, ma il ritiro non è una sconfitta, anzi è una vittoria. Quale vittoria? Una vittoria doppia: abbiamo ottenuto il consenso del popolo e abbiamo costretto Pechino a mostrare la sua vera faccia». Le organizzazioni studentesche, tuttavia, sembrano aver preso il sopravvento e non vogliono sentir parlare di ritiro. E questo, secondo il vescovo emerito, è un punto di debolezza della protesta. «Purtroppo questi giovani vogliono prendere la leadership e non ascoltano gli altri. E questo è anche ingiusto: perché il successo è stato di tutto il popolo, non solo degli studenti. Certo, loro hanno fatto dei gesti intelligenti, sono stati molto decisi, ma la partecipazione è stata di tutto il popolo. Gli studenti hanno dimenticato di essere stati sostenuti dal grande appoggio della massa di gente che si è riversata nelle strade. E adesso i giovani chiedono di essere loro i padroni».

Il cardinale Joseph Zen sa quello che dice. Nato a Shanghai nel 1932, ha assistito all’occupazione giapponese, alla guerra civile e alla nascita della Repubblica Popolare di Mao Zedong. La sua speranza non è mai venuta meno perché vede quanto il cristianesimo, in Cina, resiste e si espande nonostante la dura repressione. La Chiesa cinese è divisa in due: ce n’è una ufficiale, controllata dal partito che rinnega il Papa e una sotterranea, perseguitata, che non ha mai troncato il suo rapporto di obbedienza al Santo Padre. Zen è ottimista, in merito, ha sempre ritenuto che sia i fedeli che i sacerdoti siano fedeli al Vaticano. Da questo suo ottimismo deriva il suo atteggiamento di oppositore “intransigente” del regime di Pechino. «Dopo lunghi anni di separazione forzata – dichiarava nel 2005, in occasione della XI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi - la stragrande maggioranza dei Vescovi della Chiesa ufficiale è stata legittimata dalla magnanimità del Santo Padre. Specialmente negli ultimi anni è risultato sempre più chiaro che i Vescovi ordinati senza approvazione del Romano Pontefice non vengono accettati né dal clero né dai fedeli. Si spera che davanti a questo sensus Ecclesiae il governo veda la convenienza di venire a una normalizzazione della situazione, anche se gli elementi conservatori interni alla Chiesa ufficiale vi pongono resistenza, per ovvi motivi di interesse».

Nella sua veste di vescovo emerito di Hong Kong, si batta per la democrazia perché è l’unico modo di preservare la libertà religiosa nell’unica enclave cinese in cui è possibile. Se Hong Kong venisse interamente assorbita dal regime di Pechino, il percorso di conversione della Cina ne risentirebbe. Sarebbe enormemente rallentato, anche se difficilmente verrebbe fermato del tutto, vista la crescita esponenziale di conversioni anche negli ultimi anni.