Gratteri in tv riapre il dibattito su media e magistrati
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La partecipazione del procuratore di Napoli a un programma televisivo solleva un'ondata di critiche politiche e istituzionali. Una querelle che rimanda all'interrogativo più ampio dell'opportunità (o meno) che i giudici intervengano nel dibattito pubblico.

La partecipazione del procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, alla trasmissione televisiva Lezioni di mafie, in onda prossimamente su La7, ha sollevato un'ondata di polemiche politiche e istituzionali che hanno rimesso al centro del dibattito pubblico il delicato rapporto tra magistratura, informazione e visibilità mediatica.
Il programma, registrato nel teatro dell’università Roma Tre, prevede la partecipazione di vari ospiti che discutono del fenomeno mafioso rispondendo a domande poste da studenti di giurisprudenza. Tra questi ospiti figura anche Gratteri, il quale ha difeso con forza la sua scelta, spiegando che si tratta di un'iniziativa gratuita, svolta durante le ferie, senza parlare di indagini in corso e quindi, secondo quanto riferitogli anche da esperti del Consiglio superiore della magistratura (Csm), non soggetta ad alcuna autorizzazione. Gratteri ha rifiutato l’etichetta secondo cui si tratterebbe di una sua trasmissione personale, definendo fuorviante questa rappresentazione e chiarendo che si tratta semplicemente di una partecipazione, in qualità di esperto, a un confronto aperto sulla criminalità organizzata.
Tuttavia, le perplessità non mancano. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il viceministro Francesco Paolo Sisto hanno espresso giudizi critici, ritenendo inopportuna la presenza in tv di un magistrato in servizio in un contesto che, per quanto autorevole e didattico, rischia di essere percepito come uno sconfinamento mediatico del ruolo istituzionale. Secondo i due esponenti di governo, i magistrati dovrebbero evitare esposizioni pubbliche che possano minare l’immagine di terzietà, sobrietà e riservatezza che deve caratterizzare l'operato della magistratura, soprattutto quando si tratta di figure in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata. Il rischio, secondo i critici, è che attraverso queste apparizioni si alimenti un protagonismo mediatico che, in certi casi, è sembrato preludere a un futuro impegno politico, come già avvenuto in passato con altre toghe che hanno lasciato la magistratura per candidarsi in Parlamento, sollevando interrogativi sull’uso della visibilità acquisita in tv per fini diversi da quelli strettamente giudiziari.
Gratteri ha risposto a queste critiche con fermezza e tono polemico, sottolineando di accettare i giudizi in buona fede ma di non tollerare le strumentalizzazioni. «Non mi piacciono i maggiordomi e i lacchè. Accetto le critiche purché in buona fede, perché rappresentano punti di vista diversi dal mio», ha chiarito. E ancora: «Certe reazioni scomposte mi confermano che ho fatto bene ad accettare l’invito a partecipare al programma». Per Gratteri, infatti, oggi più che mai è fondamentale parlare di mafie, visto che, a suo dire, mentre in passato tutti affrontavano pubblicamente il tema, oggi sembra calato un silenzio preoccupante sul fenomeno mafioso.
La sua è una presa di posizione netta, rivendicata anche nel corso di una conferenza stampa per illustrare un'importante operazione anticamorra: «Ho partecipato a una trasmissione durata un'ora e mezzo dove commentavo video, non capisco la differenza: forse perché in tv convinco due milioni di persone e non 60mila come con i libri». Una frase che non è passata inosservata, perché sembra toccare il cuore stesso della polemica: il rapporto tra efficacia comunicativa e ruolo istituzionale. Il procuratore evidenzia come la televisione sia uno strumento potente di sensibilizzazione, più dei libri o delle sentenze, e questo elemento viene da lui interpretato come un'opportunità da cogliere, non come un rischio da evitare.
Ma qui si apre un nodo profondo, che riguarda il ruolo del magistrato nella società contemporanea. È corretto che un magistrato, nel pieno delle sue funzioni, partecipi a una trasmissione televisiva per parlare di legalità, criminalità, cultura mafiosa, anche se lo fa a titolo gratuito, durante le ferie, e senza riferimenti a processi specifici? Oppure si rischia di trasformare la toga in un megafono, col pericolo che l’autorevolezza derivante dalla funzione giurisdizionale si trasformi in visibilità personale?
Da tempo il dibattito sull’opportunità della presenza mediatica dei magistrati è vivo in Italia. Da un lato, chi sostiene che la giustizia debba essere trasparente, vicina ai cittadini, capace di dialogare con l’opinione pubblica per educare e informare, soprattutto su temi complessi come le mafie. Dall’altro, chi ritiene che la comunicazione sia un ambito da lasciare alla scuola, ai docenti, ai giornalisti, mentre il compito dei giudici e dei pubblici ministeri deve restare quello della scrittura delle sentenze e dell’amministrazione della giustizia. In mezzo, l’ombra lunga delle esperienze passate, con magistrati divenuti volti noti prima di intraprendere carriere politiche, alimentando il sospetto che la ribalta mediatica non sia del tutto disinteressata. È in questo contesto che si inserisce la polemica su Lezioni di mafie, con un Gratteri determinato a difendere il valore pedagogico dell’iniziativa e una parte del governo che invece vede nella sua partecipazione un elemento di potenziale ambiguità.
La questione, perciò, non riguarda solo il singolo caso, ma rimanda a un interrogativo più ampio: dove finisce il diritto di un magistrato di partecipare al dibattito pubblico e dove inizia il dovere di rifuggire da ogni esposizione personale? E ancora: può un magistrato educare alla legalità oppure questo compito appartiene ad altri ambiti, a partire dalla scuola e dall’università? Gratteri è convinto che la trasparenza del suo ruolo e la chiarezza delle sue intenzioni parlino da sole. «Sono chiaro, leale e trasparente, e gradirei che lo fossero anche gli altri», ha detto, respingendo al mittente le accuse di protagonismo e ribadendo di non avere nulla da nascondere.
Eppure, nel sottobosco delle critiche, resta una sensazione di disagio istituzionale, come se il confine tra informazione e spettacolarizzazione non fosse così netto, e il rischio di una deriva personalistica della funzione giudiziaria fosse tutt’altro che remoto. Le Lezioni di mafie, quindi, rischiano di diventare anche lezioni sul delicato equilibrio tra giustizia, comunicazione e potere. Un equilibrio fragile, che richiede non solo rigore e trasparenza da parte dei magistrati, ma anche una riflessione pubblica matura e onesta sul ruolo di chi amministra la giustizia nella società dell’informazione.
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