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CONTINENTE NERO

Fra Congo e Ruanda è una pace senza pace

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Fa notizia l'accordo mediato da Donald Trump per porre fine alla guerra quasi ventennale tra Congo e Ruanda. Ma le milizie filo-ruandesi M23 mantengono il controllo del loro territorio e non disarmano. Anzi: avanzano ancora.

Esteri 09_12_2025
Congo, milizie M23 (La Presse)

Nei giorni scorsi l’evento africano che ha destato più attenzione, quello al quale la stampa internazionale ha dato maggiore risalto è stata la pace tra Repubblica Democratica del Congo e Ruanda, firmata il 4 dicembre a Washington, alla presenza del presidente Usa Donald Trump, che ne è stato il negoziatore, e di alcuni leader africani invitati a presenziarvi dalla Casa Bianca. Include la ratifica dell’accordo preliminare che era stato accettato dai due paesi a giugno e del Quadro di Integrazione Economica e regionale definito all’inizio di novembre.

Nelle speranze di tutti mette fine a un conflitto che è durato quasi 20 anni, intervallato da tregue e sospensioni, che ha coinvolto in tempi diversi almeno altri sette Stati africani e che ha causato quasi sei milioni di morti. Il Ruanda oltre a combattere direttamente contro il Congo, con le proprie truppe, lo ha fatto sostenendo gli M23, un gruppo costituitosi nel 2012 composto prevalentemente da truppe di etnia Tutsi, la stessa al potere dal 1994 in Ruanda, e attivo nelle provincie orientali del Nord e Sud Kivu, confinanti con il Ruanda. L’M23 dal 2023 fa parte della Alleanza del fiume Congo, una coalizione antigovernativa. Nel 2024 ha imposto il proprio controllo su territori sempre più vasti e lo scorso gennaio, affiancato da truppe ruandesi, ha conquistato prima Goma, capoluogo del Nord Kivu, poi Bukavu, capoluogo del Sud Kivu.

La pace tra Congo e Ruanda, firmata dai presidenti dei due paesi, Félix Tshisekedi e Paul Kagame, viene celebrata come una svolta storica, un magistrale saggio di diplomazia internazionale, un successo dell’amministrazione Trump capace di riuscire là dove tanti hanno fallito. Il Ruanda si impegna tra l’altro a non fornire più aiuti militari e di altra natura agli M23 e il Congo a sua volta si impegna a non minacciare l’integrità territoriale del Ruanda e a difendere i Tutsi congolesi dagli attacchi di un gruppo armato, le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda, attivo anch’esso nelle due province orientali e composto quasi interamente dagli Hutu fuggiti in Congo nel 1994 e dai loro discendenti (responsabili del genocidio dei Tutsi). Sono i due motivi finora addotti dal Ruanda per giustificare il suo sostegno agli M23.

Se anche Tshisekedi e Kagame manterranno fede agli impegni, sotto minaccia di sanzioni internazionali e allettati dai consistenti finanziamenti promessi dal presidente Trump, rimane l’incognita, enorme, rappresentata dagli M23 e della Alleanza del fiume Congo. Gli M23 e il governo congolese a novembre, a seguito di una serie di incontri svoltisi nei mesi precedenti in Qatar, hanno firmato un accordo di massima, tutto però da definire nei dettagli.

Il punto critico è che gli M23 nel frattempo hanno triplicato forze e combattenti e controllano stabilmente i territori conquistati, inclusi i due capoluoghi. Vi hanno creato un loro sistema amministrativo in sostituzione di quello governativo esautorato e, almeno fino a questo momento, non mostrano alcuna intenzione di deporre le armi, ritirarsi e sciogliersi. Presidiano le aree delle province occupate, vi hanno insediato i loro governatori, hanno nominato sindaci e funzionari, sistemato le infrastrutture, a partire dalle strade. Si sono anche consolidati finanziariamente grazie alle tasse imposte sui prodotti minerari di cui quelle regioni sono immensamente ricche e che adesso sono nelle loro mani. Inoltre hanno ristabilito un certo ordine, stanno garantendo una relativa sicurezza, una situazione che la maggior parte dei residenti non hanno mai conosciuto. Si tratta di un fattore di estrema importanza per popolazioni che da decenni subiscono la violenza devastante di decine di gruppi armati, lasciati liberi di infierire dalle forze governative troppo corrotte e demotivate per impegnarsi e anche dai caschi blu della Monusco che pure, con quasi 18mila effettivi, è una delle più grosse missioni di peacekeeping Onu mai dispiegate, operativa dal 2010.

Lungi dal deporre le armi, tra il 6 e il 7 dicembre gli M23 sono avanzati combattendo in un’area a ridosso del confine con il Burundi e hanno conquistato un’altra città del Sud Kivu, Lunvungi. I militari governativi fuggiti dalla città si sono poi scontrati con forze di autodifesa locali in una città vicina, Sange, dove si sono verificate delle esplosioni che hanno ucciso almeno 36 persone. Chi dei contendenti ne sia responsabile resta al momento da chiarire. Sta di fatto che, appena rientrato in patria, il presidente Tshisekedi l’8 dicembre ha accusato il Ruanda di violare la pace e ha riferito in merito al parlamento. Il governo ruandese non ha replicato.

Il presidente Trump sostiene di aver posto fine a una lunga guerra. Esperti e osservatori ritengono possibile che la Repubblica Democratica del Congo debba prepararsi a fronteggiare una frattura destinata a durare. Molto dipenderà da fattori interni, dalla forza e dalle intenzioni dell’opposizione al governo di Tshisekedi. A ottobre nella capitale del Kenya Nairobi un gruppo di dissidenti si è incontrato per dar vita a un movimento per salvare il paese dalla “dittatura instaurata da Tshisekedi”. Con loro c’era Joseph Kabila, che è stato presidente del Congo dal 2001 al 2018 e ne ha approfittato per costruire per sé e per la propria famiglia un impero finanziario. L’Alta Corte militare del Congo pochi giorni prima lo aveva condannato a morte in contumacia per crimini di guerra e tradimento. Da anni Kabila vive all’estero, ma lo scorso maggio si è recato nei territori orientali controllati dagli M23. Tshisekedi lo accusa di essere la mente del gruppo M23.