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LA PROPOSTA

Famiglia e lavoro, i limiti della riforma Madia

Telelavoro, part time e convenzioni con asili nido e campi estivi. Sono questi alcuni dei contenuti della riforma Madia che dovrebbe essere presentata nei prossimi giorni per conciliare famiglia e lavoro. Primo limite: riguarda solo i dipendenti pubblici. Secondo: non tutela al meglio la maternità.

Economia 22_02_2017
Marianna Madia

Telelavoro, part time e convenzioni con asili nido e campi estivi. Sono questi alcuni dei contenuti della riforma Madia che dovrebbe essere presentata nei prossimi giorni per innovare il pubblico impiego. Una proposta che, almeno nelle intenzioni, ha l'obiettivo di rendere più agevole la conciliazione famiglia-lavoro per tutti i genitori. L'idea è buona anche se, così come è stata enunciata (vedremo in seguito se e come verrà realizzata), lascia trasparire due limiti.

Il primo è legato al fatto che si applica solo al pubblico impiego e non a tutti i dipendenti e lavoratori in proprio. Parliamo nello specifico di una platea di circa 3,4 milioni di persone, più o meno il 15% dei 22,8 milioni di lavoratori (in buona parte anche genitori) italiani. Una scelta che fa sorgere il legittimo dubbio che il vero obiettivo del governo, più che favorire la genitorialità, sia quello di coccolare i sindacati del pubblico impiego come la Cgil che ha comunque già fatto sapere di essere più interessata agli 85 euro in più in busta paga. Se si fosse davvero voluto incentivare i lavoratori a mettere al mondo dei figli, si sarebbero ideati strumenti in grado di includere nella platea dei beneficiari il maggior numero di famiglie italiane, soprattutto quelle numerose, le più penalizzate dalla crisi economica.

Tanto più (e arriviamo al secondo punto) che l'obiettivo di un governo dovrebbe essere quello di favorire il più possibile una reale conciliazione famiglia-lavoro dando ai genitori, soprattutto alle madri, la possibilità di stare a casa con i propri figli piccoli invece che “parcheggiarli” in un asilo nido. Da questo punto di vista il nostro paese è ancora carente rispetto ad altre nazioni del Nord Europa che, da tempo, fanno politiche innovative per le famiglie. In Norvegia, ad esempio, i genitori possono scegliere tra un congedo di 46 settimane al 100% della retribuzione e di 56 settimane all’80%, per un totale di due anni esatti. Di questo periodo, 12 settimane sono riservate ai padri: se gli uomini rifiutano di usufruirne, non possono farlo le mogli al loro posto (e quindi i tre mesi vengono persi). E anche in Svezia le cose non vanno male: i genitori possono chiedere fino a 480 giorni (un anno e quattro mesi) all’80% dello stipendio, periodo che possono di dividersi come gradiscono.

Un'analisi dello studio legale Daverio&Florio, che ha fotografato le differenze a livello internazionale sui congedi e sulle remunerazioni in caso di maternità e paternità, dimostra che l'Italia offre comunque maggiori tutele ai genitori rispetto a molti altri paesi occidentali. Meglio di noi c'è la Gran Bretagna che concede alle madri lo stop dal lavoro per 52 settimane, di cui 26 obbligatorie e 26 aggiuntive, a prescindere dall’anzianità di servizio. Peggio dell'Italia va però la retribuzione, obbligatoria per le prime 39 settimane, che ammonta al 90% solo per le 6 settimane iniziali mentre per le successive 33 settimane non può superare le 139,58 sterline a settimana. Una cifra davvero esigua, specie in un Paese con un costo della vita elevato come il Regno Unito. La Francia concede di norma solo 16 settimane, con tutele che aumentano nel caso la lavoratrice madre abbia più di due figli (26 settimane) o se partorisca gemelli (34 settimane), in cui si riceve il 79% dello stipendio. Stesso periodo per Spagna e Olanda dove però la retribuzione è integrale, mentre in Germania ci si ferma a 14 settimane.

Ma davvero i genitori italiani sono privilegiati rispetto ai “colleghi” europei? Non sempre se consideriamo che molto spesso i neogenitori, specie se giovani, non godono di contratti stabili ma precari. Basta dare un'occhiata al sito dell'Inps per notare come, nel terzo trimestre 2016 (ultimi dati disponibili), su 22 milioni 884mila lavoratori ci fossero 14,94 milioni di dipendenti a tempo indeterminato, 5,39 milioni di lavoratori in proprio e 2,56 milioni dipendenti a tempo determinato. Se guardiamo alla fascia d'età compresa fra i 15 e i 34 anni, che comprende gli anni di maggiore fertilità in cui è più probabile avere un figlio, la situazione non cambia moltissimo. Su 6 milioni 439mila lavoratori, infatti, ci sono ben 1,32 milioni di contratti a tempo determinato e 934mila lavoratori in proprio: facendo le somme si arriva a circa 2,27 milioni di persone con pochissime tutele di fatto, pari a circa il 35% del totale.

Il punto è che maternità e paternità non devono essere concepiti come diritti sindacali, da concedere in alternativa ad aumenti salariali, ma come tutele indispensabili per contribuire alla salute e alla stabilità della nostra società. Un paese che fa pochi figli come l'Italia, infatti, è destinato a scomparire. Ed è invece un bene che, visto che siamo nell'Anno Domini 2017, si favoriscano forme di telelavoro che consentano alle madri di prolungare la propria permanenza a casa coi figli senza rinunciare al lavoro che a causa della crisi economica, sempre più spesso, è indispensabile alla sopravvivenza economica del nucleo familiare.