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il documento Usa

Europa alleata, ma così non va. Cos'ha detto davvero Trump

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Le reazioni europee al Documento sulla sicurezza nazionale esposto da Trump sono frutto di pregiudizio: proprio perché gli europei vengono considerati alleati privilegiati, si esprime preoccupazione per i segni di una crisi delle democrazie: il dirigismo soffocante, l'immigrazione di massa sregolata, la repressione della libertà di parola. 

Attualità 09_12_2025

Le tesi esposte nel documento sulla strategia di sicurezza nazionale reso noto giovedì scorso dall'Amministrazione Trump non dovrebbero stupire nessuno. Esse, infatti, sono l'esposizione sistematica di idee già più volte esposte, a partire dal suo secondo ingresso alla Casa Bianca, dal presidente e dai suoi collaboratori.

Stupisce, invece, la selva, ormai tristemente prevedibile, di reazioni indignate, scandalizzate, inviperite che molti media, intellettuali, membri delle classi politiche e dirigenti europei hanno espresso rispetto alla strategia trumpiana, accusando il presidente di disprezzare il Vecchio Continente, di volerlo abbandonare a se stesso, di coltivare mire imperialiste, nazionaliste, addirittura "suprematiste", di voler gestire tutte le principali questioni che riguardano il continente attraverso un pactum sceleris con la Russia di Putin.

Una visione cupa e demonizzante, ulteriormente alimentata dalla reazione rabbiosa di Elon Musk alla pesante multa inflittagli dall'Unione in base al Digital Service Act, con l'invocazione appunto allo scioglimento dell'Ue; e, per converso, dalla valutazione positiva del piano strategico statunitense da parte proprio del governo russo, che, per bocca del portavoce Dmitry Peskov, lo ha definito "largamente coerente" con la visione di politica estera di Mosca (ma riferendosi in particolare al disegno di pace per l'Ucraina).

Ma la lettera e la sostanza del documento di strategia nazionale americana autorizzano queste condanne senza appello? Qual è davvero la visione dell'equilibrio mondiale del presidente statunitense, e che ruolo svolge in esso il Vecchio Continente?

In primo luogo, il rapporto ribadisce con forza l'idea secondo cui il mondo attuale, dopo la guerra fredda e le grandi trasformazioni della globalizzazione, è ormai strutturalmente plurale. In esso il peso dell'Occidente è ridimensionato, e gli Stati Uniti non possono né devono più aspirare a svolgere un ruolo di potenza unipolare, un "dominio americano sul mondo intero", sia pur sotto la veste del "multilateralismo" e del legame con le organizzazioni internazionali/sovranazionali..

Piuttosto, il fulcro della politica estera americana deve essere la sopravvivenza, la forza e la prosperità degli Stati Uniti per assicurare ai suoi cittadini il godimento dei loro diritti naturali e il loro tenore di vita.

A tale scopo, gli Stati Uniti devono puntare a politiche di crescita economica attraverso l'incentivazione del libero mercato e della ricerca tecnologica, e garantire tanto la propria autonomia energetica quanto le catene di approvvigionamento vitali, e parimenti mantenere per la propria sicurezza una indiscutibile superiorità militare.

Sul piano della politica estera "pura" o di potenza, essi devono poi concentrarsi, con spirito realista e pragmatico, su quei teatri che corrispondono ai loro interessi primari. Innanzitutto, devono avere il pieno controllo dell'emisfero occidentale, ossia del continente americano nel suo complesso, nell'ottica della riproposizione, già chiaramente esplicitata da Trump in più casi, della dottrina Monroe, sbarrando la strada alle mire espansionistiche di altre potenze (Cina in primis, ovviamente).

In seconda battuta, devono stipulare solidi patti con alleati nelle altre regioni del mondo per impedire che si espandano potenze pericolose per il modello di società fondato su libertà, mercato, democrazia. Da questo punto di vista, gli scenari cruciali sono quello europeo, quello mediorientale e quello dell'Indo-Pacifico. In essi l'Amministrazione Trump si prefigge di favorire la pacificazione attraverso la risoluzione dei conflitti e la leale convivenza tra soggetti diversi, senza aspirare ad imporre ad altri forme di regime politico «incompatibili con la loro storia e le loro tradizioni»; congiunta sempre però ad un uso efficace e credibile della deterrenza militare, e alla previsione dell'uso della forza in eventuali situazioni di minaccia esistenziale per gli interessi americani.

È proprio nel quadro del "secondo stadio" della sicurezza nazionale, appunto, che rientra la valutazione dell'Amministrazione Trump sul ruolo attuale dell'Europa. Il Vecchio Continente, al contrario di quello che dicono i feroci critici europei del documento, non viene considerato affatto da Trump come un contesto secondario o trascurabile.

Esso viene anzi citato come l'alleato primario, più profondamente simile e più solido degli Stati Uniti. Uno degli obiettivi fondamentali del documento strategico americano è quello di «aiutare i nostri alleati a salvaguardare la libertà e la sicurezza dell'Europa, e al tempo stesso a restaurare in essa la fiducia nella propria civiltà (civilizational self-confidence) e l'identità dell'Occidente». «L'Europa rimane strategicamente e culturalmente vitale per gli interessi degli Stati Uniti», che quindi hanno bisogno di «promuovere la sua grandezza», di avere come partner un continente forte, e tutelato da possibili dominatori pericolosi.

Proprio a partire da tali premesse vanno considerate le critiche severe dell'Amministrazione agli alleati europei e all'Ue (che riprendono quelle già espresse a gennaio scorso a Monaco dal vicepresidente J.D. Vance). Proprio perché gli europei vengono considerati alleati privilegiati e vitali, si esprime grande preoccupazione per quelli che vengono considerati segni di una crisi strutturale delle democrazie dall'altra parte dell'Atlantico: il dirigismo soffocante che abbatte la competitività economica, l'immigrazione di massa sregolata che rischia di provocare un collasso della civiltà europea, la repressione della libertà di parola che rinnega le basi stesse dei regimi liberali pluralisti.

Un'Europa che rischia nel giro di 20 anni di diventare «irriconoscibile», di non essere più se stessa, implica rischi enormi per i princìpi fondanti della democrazia americana. L'insofferenza verso l'Ue – di cui viene condannata la tendenza verticistica e dirigistica - , l'esortazione agli alleati a raggiungere l'autonomia nella loro difesa, la condanna della loro ossessione bellicista nei confronti della Russia, laddove sarebbe vitale una pacificazione del teatro russo-ucraino per la loro sicurezza, vanno lette sempre alla luce della volontà americana di rafforzare il bastione europeo dell'Occidente, non certo di indebolirlo.

Considerare questi sproni critici come frutto del proposito ostile di indebolire il Vecchio Continente, o di abbandonarlo all'imperialismo russo, non può che essere frutto di pregiudizio, cattiva coscienza o malafede. Chi, nell'establishment continentale, sposa questa interpretazione ancora una volta ostinatamente guarda il dito per non guardare la luna. Cerca di additare, con scarsa credibilità, il principale alleato storico come un nemico intenzionale per rimuovere i problemi gravi che l'Europa si è procurata da sola, e rifugiarsi nella confortevole autoreferenzialità di un'ideologia eurolirica drammaticamente sconfessata dalla storia. O, peggio, cerca di giustificare, gridando all'“uomo nero” Trump, una politica cinica, illiberale e compromissoria di avvicinamento a quello che dovrebbe essere l'antagonista principale di tutto l'Occidente: il regime autoritario cinese.