Doppia morale del PD: per Toti dimissioni, per Sala "resistenza"
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Garantismo a fasi alterne. Gli stessi politici che oggi predicano garantismo e difendono Sala a Milano, poco tempo fa chiedevano a gran voce le dimissioni di Toti in Liguria. E non sono le uniche contraddizioni.

L’ipocrisia in politica non è una novità, ma diventa particolarmente evidente quando i riflettori si accendono su vicende giudiziarie che coinvolgono figure istituzionali di peso. È il caso di quanto sta accadendo in queste settimane attorno alla figura di Giuseppe Sala, sindaco di Milano, indagato per abuso d’ufficio. A fare notizia, però, non è solo l’indagine in sé, ma la reazione scomposta e profondamente incoerente della sinistra che, esattamente un anno fa, chiedeva a gran voce le dimissioni del presidente della Regione Liguria Giovanni Toti – anch’egli finito nel mirino della magistratura – organizzando manifestazioni pubbliche, cortei, appelli e raccogliendo firme per allontanarlo dalla carica. La sinistra, quella stessa sinistra che oggi si schiera compatta a difesa del primo cittadino milanese, parlava allora di “dignità delle istituzioni”, di “rispetto per la legalità”, di “inopportunità politica” nel mantenere incarichi pubblici con procedimenti giudiziari in corso.
Eppure oggi, con una giravolta tanto repentina quanto clamorosa, quegli stessi esponenti invocano prudenza, presunzione di innocenza, garantismo e stabilità amministrativa. È il solito doppiopesismo che ha come unico criterio la convenienza politica del momento. E così, mentre un anno fa il semplice avviso di garanzia o un provvedimento di custodia cautelare erano considerati motivi sufficienti per far cadere un governatore, oggi diventano dettagli trascurabili, questioni poco più che formali. Ma l’ipocrisia non si ferma qui. A complicare il quadro ci pensano i Cinque Stelle, che dopo aver rinnegato le origini giustizialiste e aver difeso strenuamente Virginia Raggi e Chiara Appendino, rispettivamente ex sindache di Roma e Torino, oggi riscoprono l’antico furore moralizzatore per marcare la distanza dal Partito Democratico e cercare di recuperare voti nel campo del giustizialismo più intransigente.
Raggi fu travolta da inchieste durante il suo mandato e si rifiutò di dimettersi, rivendicando a ogni passo la legittimità del proprio operato e il diritto di restare in carica fino a sentenza definitiva. Lo stesso vale per Appendino, coinvolta in vicende giudiziarie pesanti, tra cui quella legata alla tragica notte di piazza San Carlo. Eppure allora i vertici grillini fecero quadrato attorno a loro, difendendole in nome del voto popolare e della volontà degli elettori. Oggi, invece, invocano rigore e trasparenza, dimenticando la propria storia recente. È un cortocircuito evidente, dove la coerenza viene sacrificata sull’altare dell’opportunismo, della strategia elettorale, del calcolo spicciolo.
Questo scenario si inserisce in un contesto politico più ampio in cui il ruolo della magistratura ha assunto un peso abnorme, spesso capace di determinare le sorti di governi, amministrazioni e intere carriere politiche a prescindere dal verdetto delle urne. Non è un caso che l’attuale governo stia accelerando sul fronte della riforma della giustizia, con l’obiettivo dichiarato di porre un argine a un potere giudiziario percepito da molti come invadente, opaco, eccessivamente politicizzato. La separazione dei poteri, principio cardine di ogni democrazia, rischia infatti di essere stravolta quando i magistrati possono, di fatto, annullare il consenso popolare con un avviso di garanzia o un’inchiesta che arriva puntualmente a ridosso di una tornata elettorale. La riforma non è, come qualcuno cerca di dipingerla, un tentativo di indebolire la magistratura; semmai è un modo per riequilibrare un sistema che negli ultimi decenni ha visto una crescita incontrollata del potere delle toghe a scapito della politica. La giustizia non può essere utilizzata come arma di lotta politica, né può diventare l’arbitro assoluto del destino degli eletti dal popolo. È necessario ripristinare un principio di responsabilità e garantire che le decisioni spettino, in ultima istanza, agli elettori.
In questo contesto, l’atteggiamento della sinistra e del Movimento Cinque Stelle non fa che alimentare la sfiducia dei cittadini, sempre più disorientati da una classe politica che cambia opinione a seconda di chi sia sotto inchiesta. Se l’indagato è dell’altro schieramento, va cacciato; se è dei propri, allora diventa vittima di un sistema iniquo e persecutorio. Questo doppiopesismo non solo mina la credibilità delle istituzioni, ma apre la strada a una deriva pericolosa in cui il garantismo diventa selettivo e il principio di legalità viene piegato alle convenienze del momento. Il caso Toti e il caso Sala sono emblematici proprio perché dimostrano come le reazioni politiche non siano guidate da principi, ma da convenienze. Nessuno chiede di ignorare le inchieste o di minimizzare i reati ipotizzati, ma serve coerenza, serve rispetto per l’intelligenza degli elettori, serve soprattutto un atteggiamento maturo, che tenga insieme legalità, garantismo e responsabilità politica.
La battaglia per una giustizia più equa e meno invasiva non può essere strumentalizzata per difendere i propri e attaccare gli avversari. Deve essere una battaglia di sistema, che coinvolga tutte le forze politiche senza pregiudizi ideologici e senza doppi standard. Solo così si potrà ricostruire un rapporto sano tra politica e giustizia, restituendo centralità al voto e limitando il potere distorsivo delle procure. Fino ad allora, continueremo ad assistere a queste tragicommedie, in cui gli stessi attori cambiano maschera a seconda del copione, senza mai assumersi fino in fondo la responsabilità delle proprie scelte e delle proprie parole.