Dalla Corte suprema Usa un duro colpo alla dittatura woke
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Ohio. La dipendente pubblica Marlean Ames, eterosessuale e bianca, si vide negare la promozione a favore di una collega lesbica. La battaglia legale si è conclusa in Corte Suprema, che ha scardinato l'imposizione woke della Diversity, Equity, Inclusion (DEI).

È possibile che per compensare i presunti danni del razzismo, venga imposto o praticato un razzismo alla rovescia, contro i bianchi o gli eterosessuali? La domanda, provocatoria quanto necessaria, ha smesso di essere solo teorica: la risposta è arrivata con fragore dalle aule solenni della Corte Suprema di Washington. Il “pendolo dell’equità”, spinto troppo oltre, è tornato indietro e ha colpito le brume amministrative dell’Ohio con un caso di discriminazione inversa destinato a lasciare il segno.
Siamo nel Midwest del 2019, quando Marlean Ames, vent’anni di onorato servizio presso il Dipartimento per i Servizi alla Gioventù dello Stato dell’Ohio, si candida per una promozione. Ma qualcosa inceppa il meccanismo. Non l’esperienza. Non le competenze. Semplicemente non è “diversa” abbastanza.
Durante i colloqui nota qualcosa di strano e dopo qualche mese l’amara sorpresa. La promozione le viene negata e a scavalcarla è un collega che occupa una posizione inferiore e privo di un curriculum idoneo: il suo supervisore dell’epoca era omosessuale e l’agenzia assume un’altra candidata, una donna lesbica, per ricoprire il ruolo per il quale si era candidata. Come se non bastasse, pochi giorni dopo, Ames viene anche retrocessa con una significativa riduzione dello stipendio e al suo posto un collega omosessuale anch’egli privo di un curriculum all’altezza del suo.
Nel novembre 2020, la signora Ames dice basta. Fa causa al Department of Youth Services dell’Ohio denunciando di essere vittima della discriminazione dell’essere eterosessuale in un contesto che premia, sistematicamente, chi si identifica come LGBTQ+. Ha inizio così un lungo e tortuoso cammino — anche economicamente oneroso, ma ormai per Ames è una questione di principio — tra i meandri delle aule di giustizia statunitensi. Una battaglia che, udienza dopo udienza, sbatte sempre contro lo stesso muro. I tribunali di grado inferiore respingono il caso a più riprese. Il Tribunale distrettuale dell’Ohio archivia, infatti, il ricorso di Ames applicando la “background circumstances rule”: un criterio giuridico controverso, secondo cui — in sostanza — s’impone un onere probatorio più stringente ai membri dei cosiddetti gruppi dominanti quando denunciano atti di discriminazione.
Il principio sotteso è spiazzante: chi appartiene ad una categoria di maggioranza può solo discriminare, non essere discriminato. Una presunzione ideologica vestita da norma. Se a denunciare discriminazione fosse stata, per esempio, una donna nera, avrebbe avuto uno standard probatorio “normale”. Ma se a sollevare l’accusa fosse un uomo bianco, eterosessuale, il livello di evidenza richiesto sarebbe impennato vertiginosamente, fino a sfiorare — e spesso superare — l’impossibile. Un meccanismo perverso, che trasformava il diritto in ostacolo.
Poi, il colpo di scena. Il 5 giugno scorso, la Corte Suprema interviene e spazza via il principio discriminatorio nascosto tra le pieghe della “background circumstances rule”. Ma il caso Ames pesa come piombo anche perché non si tratta di una controversia privata, ma di un dipendente pubblico dello Stato dell’Ohio che ha osato sfidare il suo stesso datore di lavoro — la pubblica amministrazione. E ha vinto. La sua battaglia scardina il cuore della burocrazia americana, sempre più imbrigliata nel potere silenzioso delle commissioni preposte alla Diversity, Equity, Inclusion — quella sigla, DEI, che negli ultimi anni ha plasmato assunzioni, promozioni e avanzamenti di carriera secondo quote etniche o LGBTQ.
Con la decisione, destinata ad avere effetti nelle diverse giurisdizioni del Paese, è adesso facilitata la presentazione di ricorsi per discriminazione anche da parte di membri dei cosiddetti ‘gruppi di maggioranza’. La sentenza è stata approvata con voto unanime da parte dei giudici conservatori e progressisti. Il giudice costituzionale, che ha scritto a nome di tutti il pronunciamento, ha affermato che sia la Costituzione sia il Civil Rights Act del 1964 (la legge conquistata da Martin Luther King per i diritti civili) «garantiscono la stessa protezione a tutti gli individui, a prescindere se siano membri di una minoranza o una maggioranza». Non si può chiedere a qualcuno più prove solo perché appartiene a un gruppo ritenuto “di maggioranza”. Sembra un’ovvietà, ma nella stagione più estrema della cultura woke non lo era affatto. Rimediare alle presunte ingiustizie del passato infliggendone di nuove era diventato un principio inviolabile dalla Critical Race Theory, da Black Lives Matter, dalla comunità Lgbtq+ e da ogni sorta di declinazione del movimento woke con una ferocia che ha fatto perdere posti di lavoro e minato la libertà ai colpevoli di essere estranei a certe bandiere.
È con questi eccessi che ogni contenzioso è finito con il perdersi. Ma la signora Ames, no, non ha mollato la presa. Ha voluto combattere per cinque anni. Ottenendo, poi, una ulteriore sorpresa nel contesto statunitense: a scrivere la motivazione della sentenza è stata Ketanji Brown Jackson: il giudice, tra i più giovani (54 anni), donna e afroamericana, nominato in quel ruolo da Barack Obama — una figura simbolica, in perfetto contrasto con lo stereotipo del giudice conservatore, là proprio per essere avamposto delle istanze woke.
La sentenza della Corte Suprema arriva mentre Trump sta demolendo alle radici le politiche DEI (Diritto, Integrità, Educazione, Motivazione). Ma l’assalto di Trump è solo la ratifica finale di un movimento che era già in atto. Le aziende americane, ben prima delle presidenziali del 2024, avevano iniziato a ribellarsi contro gli standard che hanno portato ad assunzioni basate su quote, corsi di formazione, politiche e iniziative basate su razza e orientamento sessuale e la demonizzazione complessiva di individui bianchi ed eterosessuali.
La sentenza diventa allora un segnale di avvertimento per le aziende e le università che hanno utilizzato la DEI per respingere gli interessi e le rivendicazioni contrastanti dei dipendenti rei di essere bianchi e non omosessuali, ma anche per quanti si sono opposti alle correnti woke e ora scorgono una qualche forma di tutela.
Parliamo di un Paese, per intenderci, dove, come ci racconta anche il New York Times, giornale per antonomasia della sinistra Usa, un tipico «corso di formazione alla diversità» imposto dalla Coca Cola ai suoi dipendenti li esortava ad essere «meno bianchi, cioè meno oppressivi, meno arroganti, meno ignoranti». Ecco che la sentenza della Corte Suprema Usa diventa un segnale epocale.