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Il beato

Carlo d’Austria, l’imperatore che si basava sul diritto naturale

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A differenza dei sistemi costituzionali odierni, la regalità di Carlo I d’Asburgo si radicava nel diritto naturale. La sua tutela del bene comune emerse anche nel tentativo di pace al tempo della I guerra mondiale. Una figura profetica.

Cultura 19_08_2025

Il 17 agosto 1887 nasceva, a Persenbeug, Carlo I d’Asburgo-Lorena-Este, ultimo imperatore d’Austria e re d’Ungheria, figura che la Chiesa ha elevato agli altari come beato, ma che la storia politica ed europea fatica a comprendere nella sua reale grandezza. La sua vita, segnata dal dramma della dissoluzione dell’Impero e dal turbine della Grande Guerra (1914-1918), non può essere ridotta ad una parentesi dinastica, né ad un destino personale travolto dagli eventi. Egli rappresenta un paradigma, un modello antitetico rispetto alla modernità politica e giuridica, e perciò scomodo. La sua regalità si radica, infatti, nel diritto naturale e in una concezione classica e cristiana dell’ordine politico, laddove il nostro presente, italiano ed europeo, ha scelto di vivere nel regime del diritto positivo come unica fonte di legittimazione, senza fondamento metafisico e senza verità trascendente.

In Carlo I d’Asburgo si coglie una dimensione che va oltre le contingenze belliche o diplomatiche: il suo regnare fu esercizio di custodia, non di dominio; attuazione di una sovranità che sapeva di non appartenere a sé, ma ricevuta come compito e responsabilità. L’idea stessa di Impero, per lui, non si configurava come volontà di potenza, ma come unità ordinata di popoli diversi sotto un principio superiore di giustizia. A differenza della politica contemporanea, frammentata in una miriade di interessi contrapposti e incapace di elevarsi al bene comune, la sua prospettiva rimandava alla nozione classica della comunità politica come communio finalizzata alla vita buona, e dunque al riconoscimento della legge morale naturale quale criterio non negoziabile di ogni atto legislativo e di governo.

La forza della sua testimonianza emerge soprattutto se confrontata con la debolezza dell’attuale classe dirigente europea. Oggi, la politica si concepisce come tecnica di governo, come amministrazione del possibile, come gioco di maggioranze che trasformano la legge in strumento della contingenza. In Carlo, al contrario, il diritto non è mai semplice decisione, ma adesione ad un ordine che lo trascende. Egli visse la regalità in senso classico e cristiano: come ricorda Tommaso d’Aquino (1225-1274), il potere politico è legittimo soltanto se è «ordinatio rationis ad bonum commune» (ordinamento della ragione al bene comune); se si piega ad altro, degenera in tirannide. Qui sta la distanza abissale tra l’imperatore e i governanti odierni: il primo serve un ordine eterno e lo incarna storicamente, i secondi lo negano, riducendo l’uomo a funzione economica o statistica, e lo Stato a meccanismo di gestione del consenso.

Il tentativo di pace che Carlo I portò avanti in anni disperati è l’espressione concreta di questa concezione. Non fu calcolo tattico, né mera difesa di un impero minacciato, bensì la traduzione politica di un principio giuridico superiore: nessuna ragione di potenza può legittimare la guerra di annientamento, perché essa distrugge l’essenza stessa della comunità politica, fondata sulla dignità delle persone e dei popoli. Egli comprese che la guerra totale era la negazione del diritto naturale e della legge morale e, per questo motivo, vi si oppose con l’ostinazione di chi sa che la giustizia non è materia negoziabile. Questo atteggiamento non fu segno di debolezza, quanto di sovrana lucidità, poiché radicato nella convinzione che la politica, senza verità e senza giustizia, è pura violenza istituzionalizzata.

Sul piano giuridico, Carlo I si colloca come figura che riafferma con forza il limite del potere. Oggi i sistemi costituzionali, pur nella loro complessità, tendono ad assolutizzare la fonte statale o sovranazionale del diritto: è giusto ciò che è formalmente valido, ciò che passa il vaglio procedurale, ciò che ottiene consenso. Tuttavia, una tale visione dimentica che il diritto positivo è valido solo se conforme al diritto naturale. L’imperatore lo aveva chiaro: non ogni legge è giusta, e una legge ingiusta non obbliga in coscienza. Questo principio, che riecheggia la tradizione classica e tomista, si scontra con l’odierna logica giuridica, che rifiuta la nozione di «lex iniusta non est sed corruptio legis» (la legge ingiusta non è legge ma corruzione della legge), consegnando la società ad un relativismo normativo senza appigli. Carlo I non era un utopista, né un ingenuo; egli era perfettamente consapevole delle difficoltà del suo tempo, delle tensioni etniche e nazionali che laceravano l’Impero. Eppure, la sua concezione di unità politica non si fondava sulla mera forza né sulla neutralizzazione delle differenze, bensì sul riconoscimento di un principio comune di giustizia che permette la coesistenza armonica dei popoli (si veda il suo Manifesto ai popoli del 16 ottobre 1918).

L’Europa odierna, costruita come un apparato burocratico privo di anima, dovrebbe guardare a questo modello per comprendere che l’unità non nasce da regole tecniche o da trattati economici, ma da un ordine più alto che precede e fonda la convivenza.

La figura di Carlo I rimane, perciò, radicalmente controcorrente. Essa denuncia, con la sola forza del suo esempio, la crisi della politica contemporanea, incapace di riconoscere la trascendenza dell’ordine giuridico e morale. Egli è scomodo perché ricorda che la politica è servizio e non possesso, che il diritto è ordinato alla giustizia e non alla volontà, che l’uomo ha una dignità che nessuna maggioranza può revocare. In un’epoca in cui la classe dirigente vive di compromessi, di opportunismi e di calcoli, il beato Carlo d’Asburgo si erge come testimone di una regalità che assume fino in fondo la responsabilità dell’ordine naturale. Commemorarlo, oggi, significa non tanto guardare nostalgicamente ad un passato irripetibile, quanto misurare l’abisso che separa la sua visione dalla decadenza del presente. È l’occasione per ricordare che la politica, se vuole avere un futuro, deve tornare ad essere arte regale, e non amministrazione dell’effimero; che il diritto, senza radici nel naturale, diventa arbitrio; che il potere, senza giustizia, diventa corruzione. Carlo I d’Asburgo si ripresenta dunque come figura profetica: un imperatore sconfitto dalla storia, eppure vincitore nella verità.



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