Bambini in moschea, vittime di un esperimento degli adulti
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I bambini di una scuola materna cattolica vengono portati in moschea e lì, sotto la guida dell’imam, si inginocchiano e pregano. Un fatto oggettivamente grave che ha esposto i bambini all’indifferentismo religioso, quando nemmeno sono formati nella propria fede.

I fatti sono noti. I bambini della scuola materna cattolica “Santa Maria delle Vittorie” nella diocesi di Vittorio Veneto sono stati portati dalle loro maestre, con la condivisione del parroco don Andrea Sech e dei genitori, a visitare la moschea di Susegana e, a quanto testimoniato anche da immagini poi pubblicate in rete, sono stati fatti pregare dall’imam. La scelta didattica è stata sorprendente e ne è nata una prevedibile polemica.
Qualcuno, come Gigi De Palo, presidente del Forum delle Associazioni familiari, l’ha buttata sulla sapiente innocenza dei bambini che «capiscono il linguaggio del cuore e non hanno pregiudizi», mentre noi adulti «utilizziamo le ginocchia dei bambini come clava politica». A dire il vero a strumentalizzare le ginocchia dei bambini sono state la dirigente e la maestra che hanno organizzato la faccenda, perché non sono stati certamente quei piccoli a voler andare in moschea per «costruire ponti e non barriere».
Altri, come suor Anna Monia Alfieri, hanno criticato la preghiera in moschea, ma valutato positivamente l’esperienza della visita come invito all’integrazione tra religioni diverse. Se si voleva pregare – continua la religiosa – lo si doveva fare nello «spirito di Assisi» oppure lasciare la cosa sul piano culturale, come del resto avviene anche nell’insegnamento della religione cattolica nella scuola del sistema pubblico integrato, dove si studia ma non si prega.
In realtà in quella scuola materna è avvenuto qualcosa di oggettivamente grave, ed è proprio per rispetto ai bambini che bisogna dirlo. Poi ci sarà anche chi ne approfitta politicamente, ma questo è un altro aspetto.
I bambini sono stati usati per un esperimento molto discutibile nato nella testa delle maestre in ossequio ad alcuni luoghi comuni sociali ed educativi oggi diffusi anche negli ambienti ecclesiastici. I bambini non sanno nulla né di integrazione né di islam, la loro conoscenza va poco oltre mamma e papà. Sono gli adulti – le maestre – che perseguono questi scopi e fanno assumere a dei bambini atteggiamenti da loro preconfezionati e riempiti delle loro esigenze, non di quelle dei bambini.
I piccoli della scuola materna non hanno una loro identità religiosa. È una forma di violenza imporre loro di recitare la parte di un’altra religione – togliersi le scarpe, le maestre col velo, l’imam che innalza inni – senza nemmeno aspettare che essi siano minimamente strutturati nella propria. La funzione degli insegnanti non è di creare confusione mentale e spirituale. Non è nemmeno di fare esperienze di indifferentismo religioso. Speriamo che quella esperienza sia passata sui bambini come l’acqua su un sasso che subito si asciuga. Oggettivamente, comunque, essi sono stati esposti, in una età fragilissima, ad una esperienza di indifferentismo religioso: recitare il Padre Nostro in chiesa alla domenica diventa lo stesso che pregare Allah in moschea. Tra l’imam e il parroco non c’è differenza. L’esperienza potrebbe anche ripetersi con altre religioni presenti sul territorio e così il principio che “tutto è uguale” sarebbe definitivamente incarnato. Nel suo comunicato la scuola dice che «non è stato chiesto ai bambini di scegliere quale Dio, ma di pregare ciascuno nel suo credere e di sentirsi in questo “fratelli di tutti”». Proprio qui sta il problema, nel pregare senza chiedersi quale Dio si prega o, il che è lo stesso, pregare per un dio senza volto.
Poi ci si chiede: ma quelle insegnanti sanno cos’è l’islam? Inteso sia come religione che come civiltà (che del resto sono la stessa cosa)? Sono del tutto apprezzabili quella fede e quella civiltà? Le scuole cattoliche dovrebbero occuparsene, ma in altro modo, ossia formando i giovani, naturalmente ben oltre la scuola materna, ad una conoscenza approfondita della propria fede religiosa, perché se non si sa chi si è, si finisce per non sapere nemmeno chi sono gli altri. Quei bambini non hanno imparato chi sono gli altri e sono stati confusi nella comprensione di sé.
Qui si incontra un altro diffuso equivoco. La dimensione della scuola cattolica – come si dice e viene confermato da suor Anna Monia Alfieri – dovrebbe essere solo culturale e non religiosa. Ai bambini della scuola materna si dovrebbe parlare di Gesù ma non bisognerebbe farli pregare cristianamente. Tanto più ai livelli scolastici successivi. Seguendo questo criterio si sarebbe potuto portarli in moschea come ad un museo ma non farli pregare con l’imam. A ben vedere, però, non esiste una cultura che non sia anche religiosa (o antireligiosa) cioè che sia solo cultura. La cultura cerca l’unità del fondamento che infonda coerenza ai vari aspetti della vita. Facendo pregare i bambini in moschea si pongono le basi perché venga da loro assimilata anche la cultura islamica e non solo la religione; non facendoli pregare nella scuola cattolica si pongono le basi perché anche la cultura cattolica venga progressivamente meno, non più sostenuta dalla pratica religiosa.
La scuola materna ha dichiarato che l’esperienza rientra nel proprio progetto educativo, il quale, a sua volta, «segue le linee nazionali», ossia statali. La scuola cattolica paritaria, per poter stare dentro il sistema integrato di istruzione pubblica, deve seguirne gli indirizzi, abituandosi addirittura ad anticiparli con eccessivo zelo, come in questo caso.