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RIFORMA

Assunti i precari, cosa resta della riforma scuola?

Tra le riforme annunciate con solennità ed enfasi dal presidente del Consiglio figura quella della scuola. Il “patto educativo” proposto dal governo contiene alcuni profili interessanti, ma mancano ancora i sostegni alle paritarie, né si accenna al coinvolgimento delle famiglie nel percorso formativo dei figli.

Editoriali 19_09_2014
Cosa resta della riforma della scuola?

Tra le riforme annunciate con solennità ed enfasi dal presidente del Consiglio figura quella della scuola. Il 3 settembre sono state pubblicate le linee guida e nelle prossime settimane cominceranno ad arrivare le prime risposte alla consultazione pubblica sulla riforma complessiva avviata dal governo e destinata a proseguire fino al 15 novembre.

Abolizione delle supplenze brevi; decollo e finanziamento dell’organico funzionale, con un surplus di docenti a disposizione delle reti di scuola e che potranno essere utilizzati dai presidi per potenziare le attività didattiche; stop al precariato permanente; nuovo piano di assunzioni, dal 2015, di 150.000 insegnanti precari, ma con carriere legate al merito; intreccio più stretto tra scuola e mondo del lavoro, con il raddoppio da 100 a 200 delle ore di formazione direttamente in azienda; potenziamento dei laboratori, grazie anche a incentivi fiscali per i privati che investono; implementazione dell’apprendistato negli ultimi due anni delle superiori. Nella legge di stabilità dovrebbero esserci le prime risorse e da gennaio gli atti normativi conseguenti. Le coperture finanziarie sono indispensabili, se è vero che l’idea di rendere stabili tutti i posti che ogni anno non vengono coperti da docenti di ruolo (per evitare supplenti nominati di volta in volta come “tappabuchi”) costerà un miliardo.

Indubbiamente il “patto educativo” proposto dal governo contiene alcuni profili interessanti, soprattutto per quanto attiene all’irrobustimento dell’alternanza scuola-lavoro sul modello duale tedesco. L’esecutivo punta a rendere obbligatoria l’esperienza di formazione in azienda negli istituti tecnici e ad attirare investimenti privati sui laboratori.  Sul piano dei contenuti dell’insegnamento, è prevista l’introduzione di ore curriculari per l’insegnamento della pratica musicale, un rafforzamento della storia dell’arte nei licei e dell’inglese nelle scuole primarie e medie. Spazio anche al “coding”, vale a dire lo sviluppo del pensiero computazionale nella programmazione informatica nelle ex scuole elementari. Positiva appare l’idea della formazione obbligatoria dei docenti e quella, per certi aspetti collegata, della valutazione delle scuole dei professori. Il Preside, invece, dovrà dimostrare competenze manageriali e i poteri di indirizzo saranno nettamente distinti dai poteri di gestione.

Nel progetto di riforma della scuola targato Renzi non si intravvede, invece, alcun riferimento alle scuole paritarie né al coinvolgimento delle famiglie nel percorso formativo dei figli. Tutto alquanto nebuloso su quei fronti. L’auspicio è che non si tratti dell’ennesima svolta statalista per discriminare gli istituti che suppliscono provvidenzialmente alle insufficienze del sistema scolastico statale. Sarebbe un problema se l’esecutivo intraprendesse una nuova crociata contro le scuole private, mostrando di non comprendere le vere criticità del sistema formativo italiano. Anche sulla valutazione dei docenti e soprattutto sulle nuove assunzioni la riforma della scuola lascia perplessi. L’effetto pratico dell’idea di scuola riassunta nella proposta del governo potrebbe essere quello di una mega infornata di precari, senza concorsi e quindi senza valutazione del merito, a prescindere dall’effettivo fabbisogno. 

L’Italia ha il rapporto numerico docenti-alunni più alto d’Europa: troppi docenti per ciascuno studente, mentre il crollo demografico sta facendo scendere paurosamente il numero di iscritti in tutte le scuole di ogni ordine e grado. In queste condizioni, promuovere un’assunzione in massa dei precari non appare la soluzione più illuminata. Il diritto degli insegnanti precari ad essere assunti in modo stabile nella scuola non necessariamente si concilia con il diritto degli studenti ad avere docenti di qualità. Ci sono tanti insegnanti che hanno vinto dieci o vent’anni fa concorsi per materie non più nei programmi scolastici. Sarebbero in grado di riqualificarsi in tempi brevi per raccogliere la sfida di un insegnamento stabile? Non appare, dunque, del tutto infondato il sospetto che dietro questa riforma della scuola si celi il tentativo di Renzi di conquistare, dopo il “popolo degli 80 euro”, anche quello dei precari, per poi andare alle urne anticipate e monetizzare i consensi conquistati in questi pochi mesi di governo e già raccolti alle elezioni europee. Fantapolitica? Lo si capirà in questi mesi.

Ai dubbi su questo modello di assorbimento acritico di tutti i precari, a prescindere da qualunque valutazione delle loro effettive competenze, si aggiungono le perplessità sui criteri di valutazione di scuole e insegnanti. É impossibile individuarne di affidabili. I test standardizzati restano insufficienti a motivare i docenti e a introdurre meccanismi premiali efficaci e meritocratici. D’altra parte, non si capisce come possa essere chiesto ai presidi di diventare dei manager e poi imporre loro docenti non selezionabili in base al merito, ma immessi nel circuito scolastico in base alla sanatoria dei precari. La mentalità d’impresa che si vuole introdurre nella scuola passa attraverso la libertà di scelta dei docenti e dei dirigenti da parte dei presidi, altrimenti la produttività di chi lavora nella scuola non potrà mai essere ancorata a parametri di rendicontazione certi e documentabili.