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LA CUCINA LETTERARIA / 7

Alla tavola della verità con Dante Alighieri

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Il Sommo Poeta non serve ai suoi lettori un'idea astratta bensì un cibo che eleva: la verità è un piatto che può bruciare, graffiare, disgustare, ma che, una volta digerito, nutre profondamente.

Cultura 01_09_2025

«Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui…» (Paradiso XVII). Con questi versi amari, Dante ci racconta il sapore dell’esilio: non solo la lontananza dalla patria, ma anche il gusto concreto e pungente del pane altrui, salato, estraneo, indigesto. È il gusto della solitudine, della dipendenza, della dignità ferita. Il pane, alimento primario, diventa simbolo di un dolore quotidiano.
In Toscana, il pane è tradizionalmente «sciocco», privo di sale. Una scelta che affonda le radici in una rivalità storica: nel XII secolo, i Pisani imposero dazi considerevoli sul sale destinato ai Fiorentini, che reagirono eliminandolo dal pane. Così, il pane toscano divenne un segno identitario, e per Dante mangiare il pane salato altrove significava assaporare l’amarezza dell’esilio.

Ma Dante non si limita a raccontare il dolore: lo trasforma in linguaggio, in verità. E lo fa con una cucina verbale che mescola ingredienti alti e bassi, sublimi e corporei. Nel Paradiso, tra anime splendenti e visioni celesti, il poeta non esita a parlare di «rogna», «grattar», «cibo digerito». Parole ruvide, scomode, che graffiano le coscienze.
La verità, ci dice Dante, non è un’idea astratta: è carne, è corpo, è nutrimento. All’inizio può risultare indigesta, ma una volta assimilata, diventa vitale.

Questa scelta linguistica rompe con la tradizione classica, che separava rigidamente gli stili: alto per gli eroi, medio per i pastori, umile per le commedie. La cosiddetta rota VirgiliiEneide, Georgiche, Bucoliche — era il modello. Ma il cristianesimo rivoluziona tutto: la verità più alta, quella dell’incarnazione, viene raccontata con parole semplici, accessibili. Nasce il sermo humilis, lo stile umile, che Erich Auerbach definisce come il linguaggio adatto a un Dio nato in una stalla e morto in croce.

Dante eredita questa lezione e la porta alle estreme conseguenze. La sua Commedia è un capolavoro di mescolanza: temi altissimi espressi con parole quotidiane, immagini celesti accostate a metafore digestive. E il poeta lo fa con consapevolezza, perché sa che l’uomo presta attenzione solo a ciò che conosce. Ecco perché, nel suo viaggio ultraterreno, ci mostra solo anime famose: per catturare l’ascolto, per diffondere la verità.
La cucina dantesca è dunque una cucina della verità: un piatto che può bruciare, graffiare, disgustare. Ma che, una volta digerito, nutre profondamente. È il pane salato dell’esilio, ma anche il pane quotidiano della rivelazione.

Nel Convivio il sapere è servito
Nel Convivio, Dante non appare come un austero maestro, ma come un generoso anfitrione. Imbandisce un banchetto non di pietanze, ma di parole, concetti, filosofia. È un invito aperto, rivolto a tutti: perché, come afferma lui stesso, ogni essere umano è per natura affamato di sapere. La conoscenza è il pane caldo che nutre l’anima, il vino che riscalda la mente.
Il banchetto dantesco non è riservato ai dotti, ai privilegiati, agli accademici. È una tavola dove ogni commensale può sedersi e gustare.

Ma attenzione: non tutti arrivano con lo stesso appetito. Col passare del tempo, la malizia, l’avidità, l’orgoglio deviano gli uomini da questa fame originaria. Si distraggono, si saziano di cibi vuoti, si allontanano dalla mensa del sapere.
Eppure Dante insiste: il sapere è un nutrimento che non ingrassa, non corrompe, non scade. È un cibo che affina, che eleva, che trasforma. Il Convivio è la sua risposta a chi ha fame ma non sa dove cercare. È un gesto d’amore, un’offerta di senso, un invito a tornare alla tavola della verità.
Come nel Paradiso, anche qui il linguaggio è corporeo, gustativo, conviviale. La cultura non è un’astrazione: è un pasto da condividere, un’esperienza da vivere con tutti i sensi. Dante cuoco, Dante oste, Dante filosofo: un uomo che ha sofferto la fame dell’esilio, ma che ha scelto di nutrire gli altri con ciò che non può essere confiscato.

Tre cantiche, tre sapori
Non tutto ciò che si mangia nutre. Nella Commedia, il cibo diventa anche veleno, quando è divorato con brama cieca. È il caso della lupa (Inferno I), creatura famelica e insaziabile, che incarna l’ingordigia e la cupidigia. Non è mai sazia: ogni pasto la rende più affamata, ogni conquista più vuota. È l’antitesi della cucina dantesca della verità: non nutre, consuma. Il suo appetito è una malattia dell’anima, un desiderio che non conosce sazietà.
A contrastarla, Dante evoca il Veltro, figura messianica che non si ciberà di terra né di peltro, ma di «sapienza, amore e virtute» (Inferno I). È il ritorno alla mensa autentica, quella che non ingrassa il corpo ma eleva lo spirito. Il Veltro è il commensale ideale: non mangia per possedere, ma per comprendere.

Nell’Inferno il cibo non consola, ma divora. Qui non si mangia per vivere, ma si vive per essere mangiati. Nel cerchio dei golosi, la pioggia incessante di fango e grandine è il pasto quotidiano. Il cibo è degradato a rifiuto, a scarto, a materia viscida. Non c’è più sapore, solo disgusto. È la vendetta del corpo contro chi lo ha idolatrato.
Ma è nel canto XXXIII dell’Inferno che Dante ci serve il piatto più crudo: il conte Ugolino, rinchiuso con i figli nella torre della fame, racconta la sua agonia. Non è chiaro se abbia mangiato i corpi dei figli, ma il sospetto aleggia, e Dante lo lascia sospeso, come un boccone che non si riesce a deglutire. Ugolino, nel ghiaccio del Cocito, rosicchia eternamente il cranio dell’arcivescovo Ruggieri, in un pasto che è vendetta, dolore, memoria. L’Inferno è pieno di bocche: che urlano, che mordono, che ingoiano. È il regno della fame senza fine, dove il desiderio si è fatto prigione. Dante ci mostra che il peccato, quando non è redento, si trasforma in abitudine, in gesto ripetuto, in pasto che non nutre.

Nel Purgatorio, il peccato della gola è purificato attraverso la fame. I golosi, nel sesto girone, sono così smunti che il loro volto è una maschera d’umanità: su di esso si legge la parola «omo», come se la privazione avesse restituito loro l’essenza. Vedono frutti succosi, acque limpide, ma non possono toccarli. È il sapore dell’attesa, della disciplina, della fame che educa e che trasforma. Un gusto sottile, che prepara al vero nutrimento. La tentazione non è più vizio, ma occasione di riscatto.
Tra questi penitenti, Dante ci presenta papa Martino IV (Purgatorio XXIV), condannato a digiunare per espiare la sua passione per le anguille di Bolsena e la Vernaccia. E qui la cucina letteraria si fa sorprendentemente concreta: Dante non si limita a citare il piatto, lo evoca con precisione quasi gastronomica. L’anguilla, pescata nelle acque del lago, viene spellata, marinata nel vino bianco profumato, infilzata su spiedi e cotta alla brace, oppure soffritta con strutto, aglio e cipolla. È una ricetta che profuma di tradizione, ma che nel contesto dantesco diventa simbolo di eccesso, di piacere che si fa peccato.
Il piatto è così vivido che sembra uscire dalle pagine, ma non è un invito alla gola: è un monito. Dante ci ricorda che anche il cibo più raffinato, se divorato senza misura, può diventare peccato. La cucina, come la parola, può elevare o degradare. Dipende da come la si assapora.

Nel Paradiso prevalgono sapienza, amore, virtù: il pane della verità, il pasto che eleva. Il linguaggio si fa luce e la parola diventa nutrimento divino.
La cucina letteraria di Dante non è fatta per compiacere, ma per cambiare e trasformare. Alcuni bocconi bruciano, altri consolano, altri ancora illuminano. Ma tutti, una volta digeriti, lasciano dentro di noi il gusto profondo della verità.



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